Mi hanno insegnato a contare i morti: 25.000 a Waterloo, 25 milioni di peste nera, 1,5 milioni ad Auschwitz, 638 negli scontri del Cairo. Sono diventato un maestro di contabilità funebre. Invece non mi hanno mai insegnato a incontrare la morte. Mi è stata nascosta dietro le tendine e i neon degli ospedali, dalle mura che circondano i cimiteri fuori città, dalla discreta censura, dal un certo timido pudore e dagli eufemismi del nostro linguaggio. La morte è solo un numero buono per le statistiche, ma che pare nulla abbia a che fare con la realtà. E' una zia brutta, scorbutica e vecchia che è stata rinchiusa a doppia mandata in un pesante armadio in fondo ad una polverosa soffitta, dove è stata dimenticata.
In Egitto è diverso. Lì la morte è celebrata, posta al centro della vita civile e religiosa, occasione per le più meravigliose costruzioni architettoniche e per le più banali necessità pratiche. Lì i morti accompagnano con la loro garbata presenza, il riposo e il lavoro degli uomini, la loro festa e il loro lutto.
In Egitto è diverso. Lì la morte è celebrata, posta al centro della vita civile e religiosa, occasione per le più meravigliose costruzioni architettoniche e per le più banali necessità pratiche. Lì i morti accompagnano con la loro garbata presenza, il riposo e il lavoro degli uomini, la loro festa e il loro lutto.