sabato 31 gennaio 2009

L'obbedienza non è più una virtù

In questi ultimi giorni mi sono dovuto ripetutamente confrontare, intimamente e pubblicamente, sul rapporto tra obbedienza all'autorità e autonomia di coscienza.

Durante un incontro vocazionale presso i domenicani di Bologna ho posto apertamente il problema di quanto bisognasse accogliere l'insegnamento della Chiesa non ex cathedra e quanto ascoltare la propria coscienza e intelligenza soprattutto per quanto riguarda il discernimento della verità. E', infatti, mio convincimento che non sia possibile accogliere qualsiasi verità se non per intimo convincimento, a pena di far torto sia alla verità sia alla propria coscienza. Ne è seguito un breve dibattito con un duplice ammonimento al ribellismo e al conformismo. Mi pare di essere esente da entrambi i rischi. Rimane, piuttosto, la tensione presente in ogni sacerdote tra le proprie convinzioni personali e l'insegnamento ufficiale della Chiesa. La mediazione non è facile.

Contemporaneamente, sui giornali, scoppiava la polemica sulle parole del Cardinal Poletto a proposito dell'obiezione di coscienza e del primato della legge di Dio su quella dell'uomo. Un vivace scambio di opinioni ha avuto luogo sul mio blog. Francesco Costa ha ospitato una discussione molto interessante sullo stesso tema. L'ultimo intervento è di Luca Sofri. Il nocciolo è, però, lo stesso. L'intervento di Poletto viene giudicato eversivo e una eclatante violazione della laicità dello stato. Io mi ostino a non capire come ci possa essere una legge morale superiore alla propria coscienza (e per i cristiani essa è fondata in Dio - e non è proprio questo il succo della laicità?). E non capisco nemmeno come l'obiezione di coscienza possa venire confusa con il brigatismo o il fondamentalismo religioso. Forse vale la pena ricordare che l'obiezione di coscienza è il rifiuto di fare ciò che una legge considerata ingiusta lo costringerebbe a fare, esponendosi poi apertamente a tutte le conseguenze che la sua condotta illegale comporta. Essa è una pratica intrinsecamente non violenta e passiva. Altro che amnistie per assassini politici e lapidatori!

Mi sono, allora, andato a rileggere la lettera di don Milani ai giudici. Riporto qui qualche stralcio, giusto per sentirmi meno solo.

Non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla. Posso solo dir loro che essi dovranno tenere in tale onore le leggi degli uomini da osservarle quando sono giuste (cioè quando sono la forza del debole). Quando invece vedranno che non sono giuste (cioè quando sanzionano il sopruso del forte) essi dovranno battersi perché siano cambiate.
La leva ufficiale per cambiare la legge è il voto. La Costituzione gli affianca anche la leva dello sciopero. Ma la leva vera di queste due leve del potere è influire con la parola e con l'esempio sugli altri votanti e scioperanti. E quando è l'ora non c'è scuola più grande che pagare di persona un'obiezione di coscienza. Cioè violare la legge di cui si ha coscienza che è cattiva e accettare la pena che essa prevede.

Chi paga di persona testimonia che vuole la legge migliore, cioè che ama la legge più degli altri. Non capisco come qualcuno possa confonderlo con l'anarchico. Preghiamo Dio che ci mandi molti giovani capaci di tanto. Questa tecnica di amore costruttivo per la legge l'ho imparata insieme ai ragazzi mentre leggevamo il Critone, l'Apologia di Socrate, la vita del Signore nei quattro Vangeli, l'autobiografia di Gandhi, le lettere del pilota di Hiroshima. Vite di uomini che son venuti tragicamente in contrasto con l'ordinamento vigente al loro tempo non per scardinarlo, ma per renderlo migliore.
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L'ho applicata, nel mio piccolo, anche a tutta la mia vita di cristiano nei confronti delle leggi e delle autorità della Chiesa. Severamente ortodosso e disciplinato e nello stesso tempo appassionatamente attento al presente e al futuro. Nessuno può accusarmi di eresia o di indisciplina. Nessuno d'aver fatto carriera. Ho 42 anni e sono parroco di 42 anime!
Del resto ho già tirato su degli ammirevoli figlioli. Ottimi cittadini e ottimi cristiani. Nessuno di loro è venuto su anarchico. Nessuno è venuto su conformista. Informatevi su di loro. Essi testimoniano a mio favore.

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A Norimberga e a Gerusalemme son stati condannati uomini che avevano obbedito. L'umanità intera consente che essi non dovevano obbedire, perché c'è una legge che gli uomini non hanno forse ancora ben scritta nei loro codici, ma che è scritta nel loro cuore. Una gran parte dell'umanità la chiama legge di Dio, l'altra parte la chiama legge della Coscienza. Quelli che non credono né nell'una né nell'altra non sono che un'infima minoranza malata. Sono i cultori dell'obbedienza cieca.

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A dar retta ai teorici dell'obbedienza e a certi tribunali tedeschi, dell'assassinio di sei milioni di ebrei risponderà solo Hitler. Ma Hitler era irresponsabile perché pazzo. Dunque quel delitto non è mai avvenuto perché non ha autore. C'è un modo solo per uscire da questo macabro gioco di parole. Avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani, per cui l'obbedienza non è ormai più una virtù, ma la più subdola delle tentazioni, che non credano di potersene far scudo né davanti agli uomini né davanti a Dio, che bisogna che si sentano ognuno l'unico responsabile di tutto.

[...]

La dottrina del primato della legge di Dio sulla legge degli uomini è condivisa, anzi glorificata, da tutta la Chiesa. Non andrò a cercare teologi moderni e difficili per dimostrarlo. Si può domandarlo a un bambino che si prepara alla Prima Comunione: "Se il padre o la madre comanda una cosa cattiva bisogna obbedirlo? I martiri disobbedirono alle leggi dello Stato. Fecero bene o male?".
C'è chi cita a sproposito il detto di S. Pietro: "Obbedite ai vostri superiori anche se son cattivi". Infatti. Non ha nessuna importanza se chi comanda è personalmente buono o cattivo. Delle sue azioni risponderà lui davanti a Dio. Ha però importanza se ci comanda cose buone o cattive perché delle nostre azioni risponderemo noi davanti a Dio.

mercoledì 28 gennaio 2009

Mr. Benedetto e Dr. Ratzinger

Sono andato personalmente da feltrinelli a controllare. Mi sono fiondato nel reparto "religione" e dopo un'affannosa ricerca ho scovato l'ultimo libro di Pera. L'ho aperto e ho visto con i miei occhi che è vero: il Papa ha scritto una lettera piena di elogi all'ex presidente del Senato.

Nella lettera è anche scritto che ha ragione Pera nel dire che il dialogo interreligioso è impossibile. Proprio come avevano scritto i giornali. Ma io non ci volevo credere. Cos'è saltato in mente a Benedetto XVI?

Se è vero che ogni religione ha dei dogmi che non si possono mettere in discussione (o Cristo è il Figlio di Dio o non lo è), è altrettanto vero che le religioni hanno anche molto in comune, a partire dalla convinzione che ci sia qualcosa che trascende l'uomo ed il mondo. Per non parlare delle molte religioni condividono la fede in un Dio tanto grande che l'intelligenza dell'uomo non basterà mai a comprendere tutto. Ecco, il dialogo sull'uomo e su Dio può arricchire la teologia di ogni religione, senza sboccare nel sincretismo o nel relativismo. Poi non bisognerebbe dimenticarsi che il dialogo interreligioso era nato per promuovere la pace, visto che di morti per il proprio credo religioso ce ne sono stati e ce ne sono tutt'ora molti.

I cristiani credono che Dio si sia rivelato pienamente attraverso Cristo. Eppure questo non ha significato la fine di ogni discorso su Dio (visto che era già stato detto tutto). Anzi! La teologia cristiana più passano i secoli più sembra arricchirsi. La verità è, infatti, infinita e sarebbe eresia e fondamentalismo pretendere di possederla tutta. Il confronto con altre religioni aiuta i Cristiani a scoprire nuovi aspetti di Cristo o a riscoprire quelli che sono stati dimenticati. L'esempio di scuola è come i musulmani ricordino ai cristiani quanto Dio sia oltre l'uomo. Ma anche uan approfondita conoscenza del misticismo buddhista può costringere ad un salutare "reality check" i mistici cristiani. E si potrebbe continuare.

Ma, al di là del merito della questione, quello che stupisce è che a criticare il dialogo interreligioso sia stato proprio quel Benedetto XVI, che aveva dedicato ampi stralci del suo libro su Gesù al libro di un rabbino, intitolato "A rabbi talks with Jesus", colmandolo di lodi e apprezzamenti che manco per Pera. Ora, se non è dialogo interreligioso questo non so di cosa stiamo parlando.

Quindi, senza voler apparire irriguardoso, faccio le seguenti ipotesi: Benedetto
1. ha cambiato idea, convinto da Marcello Pera,
2. sta invecchiando a velocità preoccupante,
3. soffre di sdoppiamento di personalità,
4. dà ragione ai suoi interlocutori perchè è vuole essere carino con tutti.

giovedì 22 gennaio 2009

Due parole su Eluana

Non ho mai seguito con attenzione il dibattito che si è sviluppato intorno alla questione di Eluana Englaro. Essa suscita interrogativi difficili, da suscitare grattacapi e malditesta oltre che gravose incertezze di coscienza. Sicurezze, insomma, non ne ho. Ora, però, vorrei provare a abbozzare un ragionamento.

Mi pare che la discussione si svolga lungo tre binari: la legittimità dell'obiezione di coscienza; se una persona in stato vegetativo sia viva o meno; se l'alimentazione artificiale sia una cura o no. Vado con ordine, partendo da ciò che mi è più familiare.

a) L'obiezione di coscienza: il Cardinal Poletto ha invitato i medici piemontesi a fare obiezione di coscienza nel caso in cui l'ospedale per cui lavorano dovesse apprestarsi ad interrompere l'alimentazione di Eluana.

A me questo invito pare assolutamente legittimo, e non certo farina del sacco di un ajatollah. Credo che sia assodato dai tempi del processo di Norimberga che ogni cittadino abbia il diritto (e, in caso di manifesta ingiustizia, il dovere) di disobbidire a leggi che ritiene ingiuste. L'obiezione di coscienza è stato uno strumento potente nella lotta contro dittature, occupazioni coloniali e, come ricordato dallo stesso Poletto, per l'abolizione dell'obbligo di leva.

Non ritengo, però, che l'obiezione di coscienza debba necessariamente essere riconosciuta come un diritto legale. Anzi, quando si manifesta nella forma di disobbedienza civile (e l'obiettore va pubblicamente incontro a tutte le sue conseguenze) il carattere di denuncia e testimonianza diviene forte e chiaro. Quando, invece, l'obiezione diviene una sorta di scappatoia, salva da problemi di coscienza, ma perde il carattere di denuncia verso una situazione ritenuta ingiusta.

In tutta onestà, la polemica sulle parole di Poletto mi pare pretestuosa.

b) In tutta onestà, non so cosa sia uno stato vegetativo. Ritengo, però, pericoloso introdurre il criterio della coscienza o dell'autonomia per stabilire cosa sia vita e cosa non lo sia. Altrettanto pericoloso mi pare sia incominciare a pensare che ci siano forme di vita più o meno piene, più o meno degne di essere vissute. Insomma, non riesco ad ammettere che Eluana sia un po' viva e un po' morta. Se la vita e la morte vengono poste su un continuum (chiamato disabilità), e non considerati come stati discreti, poi il rischio di eugenetica e biopolitica aumenta e potrebbe diventare irresistibile.

Mi auguro che si eviti questa deriva.

c) La questione vera si riduce, quindi, all'alimentazione forzata. Se è una cura, allora, può venire interrotta per evitare accanimenti terapeutici. In caso contrario, evidentemente, no. La magistratura si è già è pronunciata al proposito: per il diritto italiano si tratta di cura. Che piaccia o meno, la famiglia Englaro ha tutto il diritto di avvalersi di ciò che è previsto dalla legge.

Se la legge non piace, è il legislatore che la deve cambiare, non certo l'esecutivo a violarla (o ad impedirne l'esecuzione). A quel punto, la discussione si va politica, e non potrebbe essere altrimenti. Giusto è che ci si confronti a viso aperto, tenendo ben presente le difficoltà e le incertezze. E che, a livello pratico, comunque finisca il dibattito, potrebbero non esserci enormi ripercussioni. Intervistato su repubblica.it un medico sosteneva che, anche quando non si interrompesse l'alimentazione, basterebbe non intervenire nel caso di un peggioramento di salute per permettere ad una persona in stato vegetativo di morire.

I principi sono importanti, ma non riescono sempre a contenere la vita (e la morte).

domenica 18 gennaio 2009

Il lato oscuro dell'autodeterminazione

L'altro giorno ragionavo sulla realisticità del progetto di autodeterminazione sudtirolese.

Oggi scopro un articolo di Joseph Nye (uno dei massimi studiosi di relazioni internazionali) che affronta il tema dell'autodeterminazione da un punto di vista globale. Si intitola: Il lato oscuro dell'autodeterminazione. In inglese, ma disponibile anche con traduzione tedesca.

Per tutti coloro che non si accontentano di slogan, ma vogliono approfindire.

venerdì 16 gennaio 2009

Giustizie

Il tema della giustizia divina mi mette sempre e terribilmente a disagio. Da un lato credo nell'infinita bontà di Dio. Dall'altro, quando sento di certe ingiustizie e malvagità, non riesco proprio ad accettare che queste restino impunite. Dopo tante nefandezze e meschinità, mi chiedo, non può proprio finire in un volemose bene generalizzato. Eppure l'inferno non sarebbe forse proprio un'estrema crudeltà, all'ennesima potenza? Insomma, rimango incastrato in questa contraddizione.

E sicuramente non è una castroneria dire che questa contraddizione è presente anche e soprattutto nella Bibbia, e nello stesso Vangelo.

Un aiuto a risolvere il nodo può venire guardando una delle ottime inchieste di Al-Jazeera. Si tratta di un reportage sul nord dell'Uganda, tormentato da decenni da una guerra civile raccappricciante. E' una guerra che reclama giustizia a gran voce.

Una prima risposta a questo bisogno di giustizia viene dalla corte penale internazionale, che ha emesso un mandato di cattura nei confronti di Joseph Kony, leader della guerriglia. Pare che siamo proprio il mandato di cattura a rendere più difficile il raggiungimento di un accordo e della pace. La soluzione della corte penale è una giustizia retributiva: chi ha sbagliato paga in modo proporzionale ai propri errori e la pena farà da esempio ai posteri. Questa è la giustizia a cui siamo abituati, al punto da considerarla l'unica forma di giustizia possibile.

La popolazione del nord dell'Uganda chiede, invece, un'altro tipo di giustizia, che non abbia come fine la punizione del colpevole, ma la ricostituzione delle relazioni spezzate dalla violenza. Ad una ammissione di colpa, si è pronti ad offrire perdono e conquistare la pace. Questa proposta non viene, è bene ribadirlo, da un qualche pacifista idealista ed estraneo alle sofferenze di questo popolo, ma da gente che ha visto i propri figli ed amici morire, venire mutilati e stuprati, e subire ogni tipo di violenza.





Ecco, io non credo di capire davvero a fondo gli abitanti del nord dell'Uganda (come di quelli del Rwanda, che cercano di uscire dal trauma del genocidio proprio con questa giustizia ricostitutiva), però penso che Dio è giusto come sono giusti loro.

lunedì 12 gennaio 2009

Ein Tirol?

Il tema dell'autodeterminazione del Sudtirolo è ritornato in auge. Eva Klotz ci ha costruito su una carriera politica e i suoi epigoni spuntano come funghi. Alle ultime elezioni provinciali sono ben tre i partiti della destra tedesca che sono entrati in consiglio accarezzando sogni d'indipendenza. Pure la SVP, l' oramai ex partito di raccolta, si preoccupa di ricordare agli elettori che l'obiettivo dell'autodeterminazione non è mai sparito dal suo statuto.

Nel frattempo, si fanno sondaggi, da cui emerge che un 20% dei sudtirolesi sarebbe favorevole ad un ritorno all'Austria, mentre un buon 30 preferirebbe il libero stato del Sudtirolo. Per chi le vuole, abbondano pure le chiacchere online. Nell'anno di Andreas Hofer ne sentiremo molte altre.


La richiesta di autodeterminazione si scontra contro formidabili ostacoli politici e giuridici. Il patto internazionale dei diritti umani, a differenza da quanto sostenuto dal partito della Klotz, non costituisce una base giuridica sufficiente a legittimare l'indipendenza sudtirolese. Esso, infatti, vale per quei popoli sottomessi a occupazione coloniale o è stato conquistato con la forza. la questione sudtirolese è stata risolta attraverso un accordo diplomatico tra Austria e Italia, sfociato nella definitiva approvazione dello statuto di autonomia e nella successiva quietanza rilasciata dal governo austriaco.

Alla mancanza di legittimità giuridica, si aggiungono i costi economici che dovuti alla nuova collocazione internazionale sudtirolese. L'Alto Adige dovrebbe provvedere con mezzi propri alla provvigione dei servizi attualmente finanziati dallo stato italiano (uno per tutti: la sicurezza pubblica interna ed esterna) o contribuire al finanziamento dello stato austriaco (nel caso prevalesse l'ipotesi di ritorno all'Austria). Dovrebbe, inoltre, riorientare la direzione del commercio internazionale. Attualmente prevale l'importazione dalla Germania all'Italia, grazie al fatto che i sudtirolesi parlano tedescono, ma vivono all'interno del sistema giuridico italiano. Infine, andrebbero ricontrattate da capo le regole per la convivenza. Per il secondo statuto di autonomia ci abbiamo messo 50 anni. Quanti ce ne vorrebbero per il terzo? Ai costi vanno sommati i rischi di violenze da parte del nuovo gruppo etnico di minoranza.

Tutto ciò vanno controbilanciate le opportunità che vengono dal processo di intergrazione europea ed interregionale, oltre che dalla graduale federalizzazione dello stato italiano.

E' chiaro che quei partiti e esponenti politici che sventolano la bandiera dell'autodeterminazione devono essere in grado di rispondere a tutte queste obiezioni. Altrimenti si dimostreranno solo dei pericolosi demagoghi e populisti truffaldini.

Naturalmente è tutto un altro discorso per il celebre lodo Ferrari.

sabato 10 gennaio 2009

La legittimazione di Hamas

Hamas è universalmente considerata un'organizzazione terroristica. In questi giorni ci viene ricordato ad ogni tre per due.

Il fatto che Hamas abbia vinto delle elezioni, sieda in parlamento e goda di un ampio sostegno popolare renda già problematica la sua categorizzazione come organizzazione terroristica. Ma a metterla ancora più in crisi è proprio la guerra che sta sconvolgendo Gaza. Chi, per sradicare un'organizzazione terroristica, attaccherebbe, indiscriminatamente o quasi, la popolazione civile? L'operazione Piombo fuso non è un'azione di antiterrorismo. E' un atto di guerra.

Uno stato non può dichiarare guerra ad un gruppo di terroristi, perchè la guerra si fa esclusivamente tra uguali. I terroristi si dovrebbero combattere con la polizia. Fargli la guerra significa elevare il loro status da criminali a nemici. I nemici uccidono, ma quando non ci si riesce, allora ci si parla.

In altre parole, è la stessa guerra israeliana a legittimare Hamas.

Il governo israeliano questo lo sa benissimo. E' quindi bene che teniamo in mente che la definizione di Hamas come organizzazione terroristica è una forma di propaganda, finalizzata al raggiungimento degli obiettivi militari e politici di Israele. Ma che può essere sempre messa da parte nel momento in cui la necessità politica e diplomatica lo richiedano e alle cannonate seguiranno (se seguiranno) le trattative.

Scandalizzarsi perchè attori internazionali invitino a dialogare con Hamas è, purtroppo, segno di stupidità politica e un fastidioso retaggio dell'idealismo aggressivo di matrice neocon.

ps. per chi sa il tedesco, ecco un'ottima analisi di Gisela Dachs, da die Zeit.

giovedì 8 gennaio 2009

Caio Giulio Bettino

Mi è capitato tra le mani il Giulio Cesare di Shakespeare. In genere, i drammi del bardo inglese mi piaciucchiano, ma questo mi ha proprio entusiasmato: la politica così come è in tutta la sua spietatezza. E poi lo scontro retorico tra Bruto e Marc'Antonio! roba da cineteca delle tribune politiche.

Era la prima volta che lo leggevo. Avevo però una singolare sensazione di deja vu. Una versione cinematografica? Una versione in prosa per bambini? Mi pareva di no. L'originale plutarchiano? meno che mai. Poi, l'illuminazione!

Certo, perchè la vita e la morte di Giulio Cesare è storia recente d'Italia (o anche: la storia si ripete).

L'ambizione sconfinata, la lunghezza dei cortei di lacchè, i modi decisi, gli aneliti riformisti: il Giulio Cesare di Shakespeare non è altro che Bettino Craxi.
E chi è che lo ha pugnalato? Un oratore raffinato, anche se un po' dialettale, amante fino allo sprezzo del pericolo di giustizia e libertà: Antonio Di Pietro, attivamente coadiuvato da un politico con molto fiuto, uan gioiosa macchina da guerra, che però finisce male abbastanze in fretta. Ma sì, è lui: Achille Occhetto. A vendicare Cesare/Bettino ci pensa un uomo ricco e gaudente, molto farfallone, ma soprattutto capace di concquistare le folle con promesse, contratti, testamenti e giuramenti. Marc'Antonio è Silvio Berlusconi, uguale sputato.

E Cesare Ottaviano? Chi è l'Augusto della politica italiana, bravo, fortunato e ambizioso? Sono giorni che mi spremo le meningi, ma proprio non mi viene in mente uno, bravo, fortunato e ambizioso che un giorno sarà in grado di sfidare Silvi'Antonio. Forse la novità è che non c'è. O che si tratta di un altro dramma non ancora rappresentato in Italia.

lunedì 5 gennaio 2009

Identità e vocazione

E' davvero un periodo strano.

Ho passato quasi 30 anni di vita a costruirmi un'identità, cercando di capire quello che sono e quello che sarò. Ho scandagliato il mio passato alla ricerca degli istanti decisivi della mia storia, dei miei istinti e delle mie pulsioni ancestrali. Ho progettato il futuro, immaginandomi in una molteplicità di ruoli, professionali e sociali, intimi e pubblici.

Di fatto, ho cercato di intagliare la mia identità nella narrazione che andavo sviluppando attorno a me stesso, in costante tensione tra quello che è stato e quello che sarà, spiegandomi a forza di perchè il presente, ma rivendicando anche tutta la libertà possibile per l'avvenire. Io ho sempre pensato di essere quello che ho fatto e quello che avrei potuto fare.

Non è più così. E non lo sarà per almeno un altro anno. Il mio periodo di discernimento vocazionale ha imposto una pausa al racconto della mia vita. E' come se delle pagine fossero state strappate. Non che questa pausa venga fuori dal nulla e non sia destinata a germinare successivamente. Ma è un fatto che non sto cercando una professione, un lavoro cioè che , almeno in parte, mi appartenga. Non sto cercando nemmeno una relazione: non c'è una ragazza con cui immaginare una travolgente e romantica storia d'amore. Non c'è più nemmeno quell'ambizione che mi ha sempre accompagnato di ricavarmi un ruolo nella vita sociale della mia città, creando legami e assumendo responsabilità in gruppi e associazioni.

Nulla di nulla. Sono immobile. Quando mi trovo con amici che non vedo da lungo tempo o ne conosco di nuovi, fatico a trovare una risposta all'inevitabile domanda:"che fai?", che poi spesso significa anche:"chi sei?".

Però, anche se non faccio nulla, sono sempre qualcuno. Ma chi? Questa pausa mi sta costringendo a ridefinirmi. A sbucciare la mia identità, come fosse una cipolla, di tutti i miei attributi posticci, accidentali direbbe forse un filosofo, e scoprire l'essenza del mio io. Sono costretto, a forza, a capire chi sono oltre a ciò che ho fatto e farò.

Con la paura che, oltre a ciò, non ci sia nulla.

venerdì 2 gennaio 2009

Un solo rischio

Fanno sicuramente benissimo i nostri vescovi a metterci in guardia da scelte che comprometterebbero la nostra piena felicità, ad ammonirci quando i nostri comportamenti rischiano di minare la fabbrica sociale, a condannare azioni in contraddizione con la nostra vera natura e, con decisione, a indicarci come ogni uomo dovrebbe essere.

C'è un solo rischio.

Che a fuori di mettere in guardia, ammonire, condannare e indicare, ci si dimentichi della cosa più importante. E cioè che Dio ci vuole bene così come ci ha creati, nonostante i nostri peccati, le nostre imperfezioni e le nostre infelicità. Che non pretende da noi di essere perfetti e senza macchia, ma che - ed è questa la gran buona notizia- attende trepidante di sentirsi chiamare, con una sola semplice parola. Papà.