martedì 21 maggio 2013

Le dimissioni


Sua Santità si è dimesso. Un gesto simile è già di per se inaudito e clamoroso, ma in Italia – lo sappiamo tutti -  lo è ancora di più.

Il nostro è, ahimè, un paese per vecchi. Ogni autorità, di qualunque genere e specie, – il professore, il dottore, il politico, il manager – rimane appiccicata alla propria poltrona, quasi vi fosse legata da un vincolo di natura sacramentale, “finché morte non vi separi”. Viene il sospetto che questi uomini, raggrinziti da un perenne esercizio del potere, sussistano esclusivamente in virtù della loro posizione e che da essa succhino vita come da un elisir di eterna giovinezza. Somigliano ad un alpinista a penzoloni su un abisso, aggrappato con le unghie ad un ultimo disperato sperone di roccia.


Ma il patologico attaccamento al potere non è l'unico male del nostro disgraziato paese. Ce n'è un altro addirittura peggiore. Si tratta del singolare stravolgimento di mezzi e fini, che troppo spesso concerne istituzioni pubbliche piegate agli interessi di chi ci lavora e non di chi dovrebbe fruirne. Il parlamento serve ai parlamentari e non agli italiani, la scuola agli insegnanti e non agli studenti, l'ospedale ai medici e non ai malati. L'origine di questo male consiste nell'aver perso di vista la vera ragion d'essere del potere, che, conferito a chi lo merita in virtù delle proprie qualità umane, non è un onore, ma un servizio da rendere alla collettività. Chi è chiamato a svolgere qualche incarico di responsabilità dovrebbe ricordarsi sempre che il suo ruolo è quello di servire, non di essere servito; che il fine del suo lavoro è il bene comune e non il proprio particolarissimo interesse; che è chiamato a dimettersi nel momento in cui capisse di non essere più in grado di svolgere al meglio le proprie funzioni.

Il vero potere è servire, ha ricordato papa Francesco nell'omelia della messa di inizio pontificato. Papa Benedetto aveva dato l'esempio rinunciando all'autorità di sommo pontefice. La grandezza e lo splendore dell'atto di Benedetto XVI stanno tutti qua: nel riconoscersi incapace di continuare a servire la Chiesa con il necessario vigore, nel rinunciare alla propria carica per il bene della Chiesa, nel ricordare a tutti che è in Cristo che dobbiamo fondare e radicare la nostra vita e non nella vana gloria del ricevere onori e dell'esercitare il comando. Le dimissioni del papa hanno, quindi, una forza profetica più forte di mille parole. Sono un elettroshock per un paese assuefatto alla gerontocrazia. Sono un invito ad un esame di coscienza per i vecchi potenti, ma anche per i giovani rassegnati a questo stato di cose.

Eppure, di fronte alla rinuncia di Benedetto non si può non pensare alle parole di Paolo, “quando sono debole, è allora che sono forte” (2Cor 12,10). Quando, all'indomani delle dimissioni del papa, ha esclamato: “ma non si scende dalla croce!”, il cardinal Dziwisz, spontaneo e irruento, faceva forse riferimento proprio all'idea che Cristo governa la sua Chiesa anche attraverso le debolezze e le fragilità dei suoi ministri e che, anzi, queste ultime rendono ancora più evidente ed efficace la sua signoria. E' infatti sulla croce - il momento della sconfitta e della morte, della debolezza e dell'umiliazione - che si manifesta la gloria di Dio.

A molti, me incluso, è invece venuto in mente il film di Nanni Moretti, Habemus Papam, nel quale si racconta di un papa che si sentiva troppo fragile per reggere il peso delle chiavi di Pietro. Ricordo bene che, durante la proiezione del film, pensavo dentro di me che era proprio di un papa simile che avevamo bisogno, di un papa, cioè, che è conscio della sovrumana sproporzione che intercorre tra le sue capacità e il compito che gli è affidato. Ecco, solo un papa che sa di essere troppo debole può lasciarsi guidare dallo Spirito. Allora, guardando il film, mi era venuta una gran voglia di saltare dentro allo schermo e di accostarmi a quel povero papa e di suggerirgli all'orecchio: è quando sei debole che sei forte!

Di queste parole non ha bisogno solo il papa di Moretti, ma tutti noi, i giovani specialmente. Ci sono giovani che non hanno paura di niente, che hanno una incrollabile fiducia in se stessi e una piena, a volte eccessiva, consapevolezza delle proprie capacità. Affrontano il mondo lancia in resta, impazienti di conquistarlo e dominarlo. A questi giovani va ricordato che nei successi economici e professionali non si può trovare un'autentica realizzazione personale. Ad essi va ricordato che la forza costruita sul riconoscimento sociale è illusoria e fuggevole, perché, paradossalmente, è solo nel riconoscere la propria debolezza che si può accedere ad una forza divina, che nulla può distruggere.

Ma ci sono altri giovani a cui il mondo sembra troppo grande e pericoloso per essere attraversato. Hanno paura. Credono di aver perso in partenza e magari cercano rifugio in un ambiente protetto che li preservi dalle sfide della vita. Si rinchiudono in un atteggiamento astioso verso una società che percepiscono come una giungla inospitale, abitata da bestie feroci. Talvolta coltivano il risentimento, altre volte si esercitano nella sottile arte della condanna preventiva, nutrita di pregiudizi e di odio. Fuggono dal mondo dopo averlo confuso con il regno delle tenebre. Asserragliati nella loro fortezza, questi giovani, gracili e timidi, hanno rinunciato a crescere. A loro va comandato di non avere paura. Spalanchino pure porte e finestre: verranno inesorabilmente confrontati con i loro limiti e fallimenti, ma proprio nel momento in cui faranno esperienza della loro debolezza, allora, se alzeranno lo sguardo verso la croce, scopriranno il Dio inatteso. Allora saranno forti della sua forza. Si tratta della forza degli umili, di coloro che non hanno nulla da proteggere o da perdere, non la loro faccia, non la loro autostima, e che sanno che il Creatore, a differenza di noi uomini, li ama teneramente per quello che sono. Se l'amore di Dio è saldo - e l'amore di un Dio eterno ed immutabile non può che essere così - cosa dovranno temere? Nulla li separerà da Lui.

Qual è il significato del gesto di Benedetto per questi giovani?
Benedetto XVI è sceso davvero dalla croce, come temeva il cardinal  Dziwisz? Ha avuto paura di fallire, di non farcela più? Ha gettato la spugna, non confidando più nel proprio vigore? Sfiduciato e timoroso, ha preferito rinchiudersi tra le mura di un convento?
Oppure ha avuto coraggio nel prendere atto della propria vecchiezza e di proclamarla al mondo? Ha avuto il coraggio dell'umiltà nel riconoscere di non essere affatto indispensabile, anzi un servo inutile? E' stato intrepido nel fare qualcosa che nessun'altro aveva mai fatto e i cui effetti sono (ancora) imprevedibili?

Non sono in grado di dare una risposta definitiva e certa a queste domande. Ognuno dovrebbe rispondere per se stesso e trarne la lezione che crede. A me basta porre un'ultima fiduciosa domanda: le sue dimissioni sono, forse, un messaggio di ostinata speranza da parte di un uomo al tramonto a coloro che stanno muovendo ora i primi passi nel mondo?

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