martedì 19 maggio 2015

La prontezza

Il luogo comune vuole che non si arrivi mai pronti alla propria professione. Infatti, sotto tanti aspetti, il giorno della mia professione io non ero per niente pronto. Non ero pronto ad accogliere gli amici che stavano arrivando da lontano; non ero pronto a mostrare ai miei confratelli le bellezze della mia terra; non ero pronto con i “santini” e con i tempi della liturgia, un po' troppo complicati per chi vive l'emozione di un momento importante. Soprattutto non ero pronto alla caldissima accoglienza che ho ricevuto da parte di tutta la parrocchia: la chiesa piena, tanta gente che ci ha tenuto a salutarmi, qualcuno si è persino commosso. In moltissimi hanno lavorato perché tutto fosse bello: il coro, il gruppo giovani, i cuochi e le cuoche, i signori Giulini. A ciascuno va il mio più sentito ringraziamento. Al tempo stesso, però, l'appassionata partecipazione alla mia professione solenne mi ha fatto comprendere la grande responsabilità che mi sono assunto.

Promettere ubbidienza fino alla morte non è un fatto privato, che riguarda me e Dio. Non è nemmeno una questione che interessa un ristretto gruppo di frati. Si fa professione pubblicamente, perché tutta la Chiesa, in ogni singolo battezzato, è coinvolta. Il Santo Spirito, che la anima e ne suscita i carismi, ha permesso che io mi assumessi il compito di testimoniare la misericordia di Cristo nel modo proprio dei frati predicatori. E' un compito grande, superiore alle mie forze, eppure tante sono le attese nei miei confronti. Si tratta di vivere con gioia e donare speranza, di avere un orecchio e un cuore attenti e di pregare sulle parole che mi saranno confidate, di essere ricco di fede, pronto a perdonare e a farmi perdonare, di accettare la compagnia del prossimo camminando sulla via del Vangelo. Una sfida da far tremare i polsi!

domenica 3 maggio 2015

Perché cantiamo la Missa de Angelis?



1. Quando l'evangelista Luca racconta la preparazione dell'Ultima Cena, usa una parola fondamentale. Questa parola è: "stanza". La stanza, cioè in greco, katàluma.
Gesù mandò Pietro e Giovanni dicendo: "Andate a preparare per noi, perché possiamo mangiare la Pasqua". Gli chiesero: "Dove vuoi che prepariamo?". Ed egli rispose loro: "Appena entrati in città, vi verrà incontro un uomo che porta una brocca d'acqua; seguitelo nella casa in cui entrerà. Direte al padrone di casa: "Il Maestro ti dice: Dov'è la stanza in cui posso mangiare la Pasqua con i miei discepoli?". 
Per capire l'importanza di questa parola bisogna fare un salto indietro di 33 anni, agli inizi del vangelo, quando Gesù venne posto nella mangiatoia perché per loro non c'era posto nell'alloggio, la stanza, katàluma.
Diede alla luce il suo figlio primogenito, lo avvolse in fasce e lo pose in una mangiatoia, perché per loro non c'era posto nell'alloggio.
Pensate quanta strada camminata, quanta polvere calpestata, quanti incontri, parole, miracoli, fatica per trovare finalmente la sua katàluma. Non una qualunque, ma precisamente questa qua, dove mangiare la Pasqua con i suoi discepoli. Finalmente Gesù trova il suo posto ed è quello dove condividere la Pasqua con i suoi compagni.

E' come se Gesù avesse avuto sempre come meta quella katàluma, perché lì si sarebbe svolto il fatto decisivo della sua vita. La missione di Gesù era finalizzata a questo momento, a questa cena, a questa stanza. Infatti dice: 
Ho desiderato con desiderio, cioè ho tanto desiderato mangiare questa Pasqua con voi.
Insomma, la cena che si svolge in questa stanza è il culmine della vita di Cristo.

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