Mi hanno insegnato a contare i morti: 25.000 a Waterloo, 25 milioni di peste nera, 1,5 milioni ad Auschwitz, 638 negli scontri del Cairo. Sono diventato un maestro di contabilità funebre. Invece non mi hanno mai insegnato a incontrare la morte. Mi è stata nascosta dietro le tendine e i neon degli ospedali, dalle mura che circondano i cimiteri fuori città, dalla discreta censura, dal un certo timido pudore e dagli eufemismi del nostro linguaggio. La morte è solo un numero buono per le statistiche, ma che pare nulla abbia a che fare con la realtà. E' una zia brutta, scorbutica e vecchia che è stata rinchiusa a doppia mandata in un pesante armadio in fondo ad una polverosa soffitta, dove è stata dimenticata.
In Egitto è diverso. Lì la morte è celebrata, posta al centro della vita civile e religiosa, occasione per le più meravigliose costruzioni architettoniche e per le più banali necessità pratiche. Lì i morti accompagnano con la loro garbata presenza, il riposo e il lavoro degli uomini, la loro festa e il loro lutto.
Cos'è la piramide, se non una tomba immensa, che possa essere vista anche dai confini del deserto e dai finestrini di un aeroplano? E' anche l'idea che ci sia un filo sottile di luce, che scende dall'alto e che lega cielo e terra. La luce, che dà la vita a tutte le creature del mondo, darà la vita anche al faraone. Allora bisogna prepararsi per questo momento. Bisogna allestire i carri e i forzieri, preparare i letti e cucinare piatti prelibati, imbalsamare uomini e bestie e proteggere i corpo del faraone in un sarcofago splendente, artigianale profezia e annuncio di una speranza, questa sì, davvero immortale.
Nel cuore della città fatimide, Ibn Qalaun giace nascosto dai ricami lignei di una mashrabiya. Si può girare intorno alla sua tomba oppure si può mettere un occhio tra le grate e spiare la sua bara, ma non è questo che il sultano voleva. Fece costruire un mausoleo maestoso intorno al suo corpo, affinché gli sguardi si levassero in alto e i cuori sussultassero di meraviglia e si perdessero tra i giochi di luce delle vetrate e tra le geometrie infinite degli archi, delle volte e delle colonne, seguendo i labirinti delle composizioni di marmo e delle travi finemente intagliate. La tomba di Ibn Qalaun è una scuola di bellezza e di magia, da dove ogni tristezza e cupezza sono state bandite. E siccome tutto questo non bastava, fece costruire, attorno al suo mausoleo, anche una madrasa e una biblioteca, forse perché la morte non è la fine, ma l'inizio di ogni sapienza e il misterioso guardiano di ogni stupore.
L'intimità profonda tra la vita e la morte, la si scopre nella confusione e nella semplicità dei cimiteri del Cairo, enormi quartieri dove i poveri vivono spalla a spalla con i morti. Vennero costruiti alle porte della città e chi poteva permetterselo arricchiva la tomba dei propri cari di una tettoia o di una casupola, in modo che nei giorni di festa potesse venire a trovare i defunti e fare un picnic con loro. Al tempo delle guerre con Israele, i rifugiati dal Sinai vi trovarono riparo con la promessa di badare e curare le spoglie dei loro antichi e quieti abitanti. Ora le tombe si confondono con le aiuole e tra le steli funerarie sventolano le lenzuola. Le vedove velate di nero siedono sui gradini monumentali e chiacchierano e forse immaginano il loro futuro. I bambini giocano a pallone, qualche vecchio sdentato fuma il narghilè e i giovani sgommano a cavallo dei motorini.
Sarà per questo che gli Egiziani non hanno paura di nulla, godono di una libertà che nessun dittatore potrà mai incatenare, attraversano le strade trafficate senza guardare e senza scappare dalle auto in corsa e manifestano urlando e cantando, incuranti delle pallottole e dei gas che fischiano loro intorno.
Ed è strano che anche da noi, che crediamo in Colui che morendo ha ucciso la morte e proclamato la risurrezione, non sia così. Forse, nascondendo la morte, abbiamo dimenticato la risurrezione. E ci è rimasta solo una sottile, inespressa paura.
In Egitto è diverso. Lì la morte è celebrata, posta al centro della vita civile e religiosa, occasione per le più meravigliose costruzioni architettoniche e per le più banali necessità pratiche. Lì i morti accompagnano con la loro garbata presenza, il riposo e il lavoro degli uomini, la loro festa e il loro lutto.
Cos'è la piramide, se non una tomba immensa, che possa essere vista anche dai confini del deserto e dai finestrini di un aeroplano? E' anche l'idea che ci sia un filo sottile di luce, che scende dall'alto e che lega cielo e terra. La luce, che dà la vita a tutte le creature del mondo, darà la vita anche al faraone. Allora bisogna prepararsi per questo momento. Bisogna allestire i carri e i forzieri, preparare i letti e cucinare piatti prelibati, imbalsamare uomini e bestie e proteggere i corpo del faraone in un sarcofago splendente, artigianale profezia e annuncio di una speranza, questa sì, davvero immortale.
Nel cuore della città fatimide, Ibn Qalaun giace nascosto dai ricami lignei di una mashrabiya. Si può girare intorno alla sua tomba oppure si può mettere un occhio tra le grate e spiare la sua bara, ma non è questo che il sultano voleva. Fece costruire un mausoleo maestoso intorno al suo corpo, affinché gli sguardi si levassero in alto e i cuori sussultassero di meraviglia e si perdessero tra i giochi di luce delle vetrate e tra le geometrie infinite degli archi, delle volte e delle colonne, seguendo i labirinti delle composizioni di marmo e delle travi finemente intagliate. La tomba di Ibn Qalaun è una scuola di bellezza e di magia, da dove ogni tristezza e cupezza sono state bandite. E siccome tutto questo non bastava, fece costruire, attorno al suo mausoleo, anche una madrasa e una biblioteca, forse perché la morte non è la fine, ma l'inizio di ogni sapienza e il misterioso guardiano di ogni stupore.
L'intimità profonda tra la vita e la morte, la si scopre nella confusione e nella semplicità dei cimiteri del Cairo, enormi quartieri dove i poveri vivono spalla a spalla con i morti. Vennero costruiti alle porte della città e chi poteva permetterselo arricchiva la tomba dei propri cari di una tettoia o di una casupola, in modo che nei giorni di festa potesse venire a trovare i defunti e fare un picnic con loro. Al tempo delle guerre con Israele, i rifugiati dal Sinai vi trovarono riparo con la promessa di badare e curare le spoglie dei loro antichi e quieti abitanti. Ora le tombe si confondono con le aiuole e tra le steli funerarie sventolano le lenzuola. Le vedove velate di nero siedono sui gradini monumentali e chiacchierano e forse immaginano il loro futuro. I bambini giocano a pallone, qualche vecchio sdentato fuma il narghilè e i giovani sgommano a cavallo dei motorini.
Sarà per questo che gli Egiziani non hanno paura di nulla, godono di una libertà che nessun dittatore potrà mai incatenare, attraversano le strade trafficate senza guardare e senza scappare dalle auto in corsa e manifestano urlando e cantando, incuranti delle pallottole e dei gas che fischiano loro intorno.
Ed è strano che anche da noi, che crediamo in Colui che morendo ha ucciso la morte e proclamato la risurrezione, non sia così. Forse, nascondendo la morte, abbiamo dimenticato la risurrezione. E ci è rimasta solo una sottile, inespressa paura.
6 commenti:
Salve!
Passavo di qui e avevo un paio di domande circa la vita domenicana.
Possono sembrare domande strane, che tra l'altro non c'entrano con l'articolo (interessante, come anche gli altri). Le domande sono strane perchè estrapolate dalla loro visione d'insieme. Le sparo a raffica sperando in una risposta, altrimenti pazienza.
1) Come funziona la gerarchia dell'Ordine dei Domenicani? Voglio dire, il frate domenicano chi ha come autorità massima della propria diocesi? Il priore provinciale oppure il vescovo? Tra priore provinciale e il vescovo locale, chi è gerarchicamente superiore (scusate la rozzezza della domanda)?
2) I conventi dei domenicani hanno bagni comuni oppure ogni cella ha il suo bagno?
3) A che ora si alzano in generale i frati domenicani?
Grazie per un'eventuale risposta! :)
Michele
Ciao Michele, ecco le risposte:
1) tutto ciò riguarda la vita interna all'ordine, le sue strategie apostoliche, le decisioni sull'apertura o la chiusura di case etc etc sono di competenza del capitolo provinciale e del priore con il suo consiglio. tutto ciò che ha a che fare con la vita diocesana spetta al vescovo. Va da sé che ci siano molti i casi in cui è necessario un accordo tra priore e vescovo.
2) dipende, alcuni (in genere quelli non ristrutturati) hanno i bagni in comune, ma ormai la maggior parte ha il bagno in camera.
3) dipende dal convento. gli orari vengono decisi dal capitolo conventuale. a bologna ad esempio la campana suona alle 6.40 per permettere ai frati di essere in coro alle 7.10. va da sé che se un frate vuole alzarsi prima (e spesso succede) nessuno glielo impedisce.
spero di essere stato esauriente nelle risposte e grazie per le domande!
Perfetto, grazie.
Segue anche una quarta domanda.
4) I frati domenicani possono avere un proprio cellulare? Se sì, non intacca il voto di povertà? Oppure rientra tra gli effetti personali?
Grazie ancora.
Michele
abbiamo quasi tutti un cellulare. è uno strumento utile per comunicare ed essere raggiungibili, tenendo conto che molti di noi sono spesso fuori convento per diversi apostolati.
nei domenicani, tutto dovrebbe essere ordinato alla predicazione, anche la povertà. un buon domenicano, quindi, rinuncerà a tutto il superfluo, ma non agli strumenti di predicazione. computer e cellulare rientrano tra questi.
Ottimo. Improvviso una quinta domanda vista la disponibilità. Poi per ora sarei a posto.
5) Riguardo il tuo penultimo post, riporti i dubbi di vari filosofi sulla fede. A ciascuno come risponderesti?
Lo so, è una domanda impegnativa. La più impegnativa tra quelle che ho posto. Ma come dice giustamente padre Barzaghi, l'obiezione è facile da sollevare, riesce a farlo anche una mucca (bah! Mah! Muh!). È rispondere all'obiezione il vero problema.
Rinnovo il ringraziamento per la disponibilità. Purtroppo dove sto io non ci sono domenicani a cui fare queste domande.
Michele
L'idea del post sui maestri del sospetto era di portare i suddetti sospetti da un livello teorico ad uno esistenziale; di farne cioè degli strumenti di discernimento personale.
questo significa due cose:
1. le obiezioni dei tre sono valide e da prendere in considerazione;
2. le risposte non possono essere universali, ma devono venire dall'esperienza di vita di ciascuno. e magari vanno riformulate continuamente.
Parlando di me, posso dire che i dubbi di Nietzsche e Freud sono stati importanti nel dare forma al mio percorso vocazionale. Nietzsche, probabilmente, mi ha fatti ritardare l'ingresso nell'ordine. Prima bisognava, infatti, dimostrare a me stesso di poter vivere "nel mondo". Freud è stato l'ultimo ostacolo, superato quando ho capito che le emozioni e le pulsioni sono delle forze che noi siamo, in larga parte, capaci di indirizzare liberamente. Chi vive situazioni psicologiche simili, è possibile che dia risposte differenti. Ogni mia perplessità è sparita quando ho smesso di fare l'eziologia della mia vocazione e ho apprezzato la forza attrattiva del fine che mi proponevo.
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