Durante la Quaresima si fa un gran parlare di conversione. Ogni buon predicatore, poi, appena pronuncia la parola "conversione", si premura di spiegare anche che il termine originale greco è "metanoia", che significa cambiamento di mentalità.
Ci si converte abbandonando l'idolatria e aderendo nella fede a Gesù Cristo.
Ci si converte abbandonando la via del peccato e tornando alla casa del Padre.
Ci si converte anche lasciando "il mondo" e intraprendendo un percorso di vocazione.
1. Quando decisi di prendere la strada che mi portò a san Domenico, non mi era chiaro quanto davvero fosse necessario cambiare mentalità. Il mio primo passo in direzione contraria è stato un ritorno ad un modo di pensare poco moderno e molto medievale. Interrogandomi sul che cosa fare della mia vita, mi rovistavo l'anima alla ricerca di ciò "a cui ero portato", sperando di trarre dalle mie qualità e inclinazioni una professione e un futuro. Mi chiedevo quali fossero le cause profonde, radicali, psicologiche che mi spingevano a farmi certe domande piuttoste che altre. Guardavo al passato della causalità efficiente per predire il mio avvenire e comprendere il mio presente.
Un giorno ho deciso di smettere. Ho smesso di ispezionare le cause che mi spingevano da una parte piuttosto che da un'altra e ho cominciato a prendere in considerazione quello che mi attraeva. Non mi sono più chiesto qual è la mia causa, ma qual è il mio fine.
Educato ad una mal digerità mentalità scientifica, che misura le cause efficienti e per cui le cause finali sono impalpabili ed evanescenti, non ero abituato a questa operazione, che invece era naturalissima per l'uomo medievale. Il contemporaneo di Tommaso d'Aquino e di Dante Alighieri ero persuaso di vivere in un mondo ordinato, dove cioè c'è un fine ultimo di tutto e in cui tutto concorre al fine ultimo. La casualità non era un'assenza di causa, ma una mancanza di fine. Così, nel mondo ordinato di Tommaso, capitavano cose ad un tempo necessarie e casuali. Necessarie, perché prodotte necessariamente dalle loro cause efficienti. Casuali, perché prodotte per accidens, inintenzionalmente e non finalizzate al fine proprio della loro causa. Si trattava, comunque, di una casualità parziale, dal momento che a Dio nulla sfugge e, nella sua onnipotente provvidenza, riconduce tutto al fine ultimo (cioè a se stesso).
E così per diventare domenicano, sono dovuto diventare anche un poco medievale.
2. Lo confesso. Nonostante tutte le apparenze contrarie, anche io sono un uomo del fare. Pratico, concreto. Mi piacciono le cose comode e utili. Odio le cose vacue e futili, discutere di quanti angeli stiano su una capocchia di spillo o del loro gender. Evito di portare acqua al mare, legna nel bosco e vasi a Samo. Mi rendono nervoso il vaniloquio delle prediche, il fumo dell'incenso e l'aria fritta, tranne che in cucina.
Però non tutto è praticità e concretezza. La vita conventuale e lo sporadico studio della filosofia, prima o poi, ti costringono a prendere atto che esiste anche una dimensione simbolica. E che questa dimensione è importante e bella. Portare il nostro abito è forse bello; sicuramente non è comodo; è però un simbolo che rimanda ad una realtà che ci trascende, a un battesimo che abbiamo ricevuto, a un destino che ci aspetta, a un'altra città di cui siamo cittadini. La cappa è nera e pesante sulle spalle, come il peccato che tutti frati portano su di sé - il proprio e quello degli altri, ma soprattutto il proprio. Essere coperti di nero è ricordarsi che non siamo migliori degli altri, che soprattutto il frate ha bisogno di rendenzione e che di questo bisogno di rendenzione deve essere testimone. I giudici sfoggiano gli ermellini rossi, i frati le cappe nere. La differenza è simbolica ed enorme.
Chi abitava il convento medievale, viveva in un mondo in cui ogni cosa, ogni gesto, anche il più piccolo, rimandava ad altro da sè. Era un mondo più scomodo e più ricco. La lunga strada per conformarsi a Cristo era aiutata da un'abitudine ad imitare il Vangelo, nelle parole, nelle preghiere, negli atti. Se a sera si recitava la preghiera di Simeone è perchè si era visto il Signore, o almeno lo si era desiderato. La luce che si accendeva era il Verbo che risplende nelle tenebre. Ogni pasto comunitario era una meditazione sull'ultima cena. E nei momenti buchi si ripetevano le parole di Bartimeo, "Figlio di Davide, abbi pietà di me", perché, pur con tutti i libri di teologia sugli scaffali, siamo ancora ciechi che non sanno dove andare.
La dimensione simbolica della vita religiosa, ahimè, è stata dimenticata, in nome dello spirito pratico della modernità. Chi la vuole recuperare, rischia di farlo "alla moderna", secondo un tradizionalismo di carattere archeologico e restaurativo, che recupera segni antichi - solo perché si faceva così - in maniera ingenua e acritica, infilandoli in contesti estranei, snaturandone il significato e celebrando così l'involontario trionfo del non-sense.
Questa quaresima è l'occasione per recuperare il significato dei miei gesti che mi sono stati insegnati. Ognuno di essi sia un piccolo segno di predicazione della venuta del Regno, un discreto invito alla conversione, un passo lieve di spirito trecentesco verso la Pasqua.
Ci si converte abbandonando l'idolatria e aderendo nella fede a Gesù Cristo.
Ci si converte abbandonando la via del peccato e tornando alla casa del Padre.
Ci si converte anche lasciando "il mondo" e intraprendendo un percorso di vocazione.
1. Quando decisi di prendere la strada che mi portò a san Domenico, non mi era chiaro quanto davvero fosse necessario cambiare mentalità. Il mio primo passo in direzione contraria è stato un ritorno ad un modo di pensare poco moderno e molto medievale. Interrogandomi sul che cosa fare della mia vita, mi rovistavo l'anima alla ricerca di ciò "a cui ero portato", sperando di trarre dalle mie qualità e inclinazioni una professione e un futuro. Mi chiedevo quali fossero le cause profonde, radicali, psicologiche che mi spingevano a farmi certe domande piuttoste che altre. Guardavo al passato della causalità efficiente per predire il mio avvenire e comprendere il mio presente.
Un giorno ho deciso di smettere. Ho smesso di ispezionare le cause che mi spingevano da una parte piuttosto che da un'altra e ho cominciato a prendere in considerazione quello che mi attraeva. Non mi sono più chiesto qual è la mia causa, ma qual è il mio fine.
Educato ad una mal digerità mentalità scientifica, che misura le cause efficienti e per cui le cause finali sono impalpabili ed evanescenti, non ero abituato a questa operazione, che invece era naturalissima per l'uomo medievale. Il contemporaneo di Tommaso d'Aquino e di Dante Alighieri ero persuaso di vivere in un mondo ordinato, dove cioè c'è un fine ultimo di tutto e in cui tutto concorre al fine ultimo. La casualità non era un'assenza di causa, ma una mancanza di fine. Così, nel mondo ordinato di Tommaso, capitavano cose ad un tempo necessarie e casuali. Necessarie, perché prodotte necessariamente dalle loro cause efficienti. Casuali, perché prodotte per accidens, inintenzionalmente e non finalizzate al fine proprio della loro causa. Si trattava, comunque, di una casualità parziale, dal momento che a Dio nulla sfugge e, nella sua onnipotente provvidenza, riconduce tutto al fine ultimo (cioè a se stesso).
E così per diventare domenicano, sono dovuto diventare anche un poco medievale.
2. Lo confesso. Nonostante tutte le apparenze contrarie, anche io sono un uomo del fare. Pratico, concreto. Mi piacciono le cose comode e utili. Odio le cose vacue e futili, discutere di quanti angeli stiano su una capocchia di spillo o del loro gender. Evito di portare acqua al mare, legna nel bosco e vasi a Samo. Mi rendono nervoso il vaniloquio delle prediche, il fumo dell'incenso e l'aria fritta, tranne che in cucina.
Però non tutto è praticità e concretezza. La vita conventuale e lo sporadico studio della filosofia, prima o poi, ti costringono a prendere atto che esiste anche una dimensione simbolica. E che questa dimensione è importante e bella. Portare il nostro abito è forse bello; sicuramente non è comodo; è però un simbolo che rimanda ad una realtà che ci trascende, a un battesimo che abbiamo ricevuto, a un destino che ci aspetta, a un'altra città di cui siamo cittadini. La cappa è nera e pesante sulle spalle, come il peccato che tutti frati portano su di sé - il proprio e quello degli altri, ma soprattutto il proprio. Essere coperti di nero è ricordarsi che non siamo migliori degli altri, che soprattutto il frate ha bisogno di rendenzione e che di questo bisogno di rendenzione deve essere testimone. I giudici sfoggiano gli ermellini rossi, i frati le cappe nere. La differenza è simbolica ed enorme.
Chi abitava il convento medievale, viveva in un mondo in cui ogni cosa, ogni gesto, anche il più piccolo, rimandava ad altro da sè. Era un mondo più scomodo e più ricco. La lunga strada per conformarsi a Cristo era aiutata da un'abitudine ad imitare il Vangelo, nelle parole, nelle preghiere, negli atti. Se a sera si recitava la preghiera di Simeone è perchè si era visto il Signore, o almeno lo si era desiderato. La luce che si accendeva era il Verbo che risplende nelle tenebre. Ogni pasto comunitario era una meditazione sull'ultima cena. E nei momenti buchi si ripetevano le parole di Bartimeo, "Figlio di Davide, abbi pietà di me", perché, pur con tutti i libri di teologia sugli scaffali, siamo ancora ciechi che non sanno dove andare.
La dimensione simbolica della vita religiosa, ahimè, è stata dimenticata, in nome dello spirito pratico della modernità. Chi la vuole recuperare, rischia di farlo "alla moderna", secondo un tradizionalismo di carattere archeologico e restaurativo, che recupera segni antichi - solo perché si faceva così - in maniera ingenua e acritica, infilandoli in contesti estranei, snaturandone il significato e celebrando così l'involontario trionfo del non-sense.
Questa quaresima è l'occasione per recuperare il significato dei miei gesti che mi sono stati insegnati. Ognuno di essi sia un piccolo segno di predicazione della venuta del Regno, un discreto invito alla conversione, un passo lieve di spirito trecentesco verso la Pasqua.
6 commenti:
Il simbolo è l'esplicitazione di un patto, un'alleanza, è sintesi, unificazione e integrazione, rimando ad altro e all'Altro. In questo senso (e anche etimologicamente) è contrario al "diavolo" - tutto ciò che divide, separa, disperde, crea maschere.
Grazie per il tuo blog. Lo seguo spesso e quest'intervento mi è particolarmente piaciuto.
Pax et Bonum!
Il simbolo è l'esplicitazione di un patto, un'alleanza, è sintesi, unificazione e integrazione, rimando ad altro e all'Altro. In questo senso (e anche etimologicamente) è contrario al "diavolo" - tutto ciò che divide, separa, disperde, crea maschere.
Grazie per il tuo blog. Lo seguo spesso e quest'intervento mi è particolarmente piaciuto.
Pax et Bonum!
Edmond Ortigues scriveva: "Il simbolo è una garanzia di riconoscimento, un oggetto spezzato in due e distribuito a due alleati".
E' quindi patto, alleanza, sintesi, integrazione e unificazione, rimando ad altro e all'Altro. In questo senso (e anche etimologicamente) si oppone al "diavolo" - che è tutto ciò che divide, separa, disintegra, disperde, chiude e isola.
Mi piace pensare che il religioso nella sua vita sia rimando all'Altro per eccellenza, di cui si è complementare, come nel mito delle metà nel Simposio di Platone.
Seguo spesso questo blog e lo trovo davvero molto stimolante per le riflessioni che suscita; quest'intervento l'ho trovato molto ma molto interessante.
Ti ringrazio per ciò che condividi con noi.
Pax et Bonum
Francesco
Grazie Francesco. Quello che hai scritto sul simbolo è molto vero e molto bello.
Condivido questo post,i Domenicani "dovrebbero" essere i difensori della VERITA', ma anche molti predicatori,soprattuto in America LAtina, purtroppo hanno adempiuto le parole di San Paolo: Verrà giorno, infatti, in cui non si sopporterà più la sana dottrina, ma, per il prurito di udire qualcosa, gli uomini si circonderanno di maestri secondo le proprie voglie, rifiutando di dare ascolto alla verità per volgersi alle favole.
Caro Pragmatico, francamente non capisco a chi e a cosa si stia riferendo.
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