domenica 16 ottobre 2011

In cella



Entrando in un convento potrebbe capitarvi di esclamare: "Miseria! Assomiglia a una prigione!". Analogamente, entrando in una prigione potreste pensare: "Sembra un convento!". Le somiglianze architettoniche non sono poche, ma se si aggiungono sbarre e inferriate, che una volta ornavano i nostri conventi, diventano addirittura lampanti. Ad esse si aggiungono quelle lessicali: il frate dorme in una cella, proprio come il recluso... e sicuramente in giro per il mondo esista ancora qualche recluso in nome di Dio.



Le somiglianze non sono casuali. Convento e prigione condividono, infatti, un medesimo scopo spirituale: la conversione dei suoi ospiti attraverso una disciplina collettiva. E, infatti, non è un caso che molti cappellani abbiamo proposto come modello ai detenuti la reclusione volontaria delle monache.

Un fatto duro da accettare è che la conversione abbia bisogno di disciplina. Noi ci immaginiamo sempre conversioni "sulla via di Damasco": uno sta facendo i fatti suoi felice della sua vita e dei suoi peccati, poi, all'improvviso, ecco un fulmine, una visione beatifica, una voce imperiosa... e tutto di un botto si converte, cambia vita, diventa un santo e  va in giro per il mondo a predicare: "Ho visto la luce!". Beh, sappiate che non è sempre così. Lo stesso Paolo, quello illuminato sulla via di Damasco, si è rintanato per tre anni nel silenzio del deserto siriano prima di diventare "l'apostolo delle genti".
Ribadisco: la conversione ha bisogno di disciplina.

Foucault, in "Sorvegliare e punire" che io, guarda caso, stavo leggendo nei giorni del mio trasloco nel convento bolognese, è prodigo di citazioni al proposito. Ad esempio riporta un testo del 1827:
Il lavoro, alternandosi al pasto accompagna il detenuto fino alla preghiera della sera; allora un nuovo sonno gli dà un gradevole riposo, che i fantasmi di una immaginazione depravata non vengono a turbare. Così scorrono sei giorni della settimana. Essi sono seguiti da una giornata consacrata esclusivamente alla preghiera, all'istruzione e a meditazioni solitarie. E così si succedono le settimane, i mesi, gli anni; così il prigioniero che al suo ingresso nello stabilimento era un uomo incostante o che non metteva convinzione altro che nella sua irregolarità, cercando di distruggere la sua esistenza con la varietà dei suoi vizi, diviene poco a poco per la forza di un'abitudine dapprincipio puramente esteriore, ma presto trasformata in una seconda natura, così familiarizzato col lavoro e con le gioie che ne derivano, che, per poco che una saggia istruzione abbia aperto la sua anima al pentimento, potrà essere esposto con maggiore confidenza alle tentazioni, cui il ricupero della libertà lo sottoporrà.
Ho qualche dubbio che questo sistema sia davvero efficace quando viene praticato su chi non l'ha desiderato. Certamente, però, per chi si mette liberamente alla ricerca di Dio funziona, eccome.


La disciplina conventuale, per quel che finora mi è parso di capire, ha tre funzioni. Condivide la prima con il resto del mondo, dove è necessaria per diventare abili in un'attività qualsiasi. Più l'attività è complessa, più richiede esercizio e fatica, più è necessaria la disciplina. Quante ore di pratica al pianoforte sono necessarie per diventare un grande pianista? Quante ore sul campetto da calcio per diventare un campione? E quindi, quanta disciplina serve per migliorare nella pratica della virtù?

La seconda funzione è comune alla disciplina conventuale e a quella carceraria (almeno in teoria). Il solito Foucault ci fornisce la citazione adeguata:
Solo nella sua cella, il detenuto è messo di fronte a se stesso; nel silenzio delle sue passioni e del mondo che lo circonda, egli si inoltra nella sua coscienza, la interroga e sente risvegliarsi il sentimento morale che non perisce mai interamente nel cuore dell'uomo.
Si tratta, quindi, di fornire un contesto appropriato per la vita interiore, per la preghiera, la meditazione, la maturazione di un rapporto personale e intimo con Dio. A questo servono il silenzio, la solitudine, la preghiera nel segreto della cella e quella pubblica in coro.

Ma c'è anche una terza - straordinaria - funzione, esclusiva della vita religiosa: la disciplina come ascesi. Essa consiste nello scoprire la fatica della disciplina, la propria incapacità di rispettarla se non grazie all'aiuto di Dio. L'ascesi disciplinare raggiunge il suo scopo quando comprendiamo che da soli non siamo in grado di rimanere fedeli alle regole imposte dalla disciplina. Che abbiamo bisogno del costante, amorevole supporto di Dio. In altre parole, la disciplina ci insegna l'umiltà.

E' questa, io penso, la vera, grande differenza tra la cella di un carcere e la cella di un convento. Nella penombra di quest'ultima nessuno è mai davvero solo davanti al proprio peccato, alla propria debolezza, alla propria fragilità, ma è sempre in compagnia di un Dio che lo consola, lo sostiene e lo conduce tra le sue braccia. Gli regala la beatitudine.


Reading list: Foucault, Sorvegliare e punire; Pinckaers, The Sources of Christian Ethics, Louf, L'umiltà.


4 commenti:

Pich ha detto...

" ... diviene poco a poco per la forza di un'abitudine dapprincipio puramente esteriore, ma presto trasformata in una seconda natura ... " Questo è un aspetto che mi ha sempre affascinato e che pare essere in controtendenza con alcuni argomenti che si trovano nel mondo attualmente, che muovono secondo lo schema che dice: Voglio fare una cosa -> sono motivato -> allora ho energia per acquistare l'abito. Da quello che leggo qui, invece sembra che sia il processo inverso: voglio fare una cosa MA non ho motivazione PERO' mettendo in atto una serie di pratiche puramente esteriori, riesco a farlo diventare comunque un abito ( e chissà, anche a far salire la mia motivazione nel fare quella cosa poco per volta )
Un giorno scriverò qualcosa a riguardo! Buona giornata!

luca ha detto...

attendo con impazienza! ;)

Anonimo ha detto...

Convento: forse vi sono più analogie con il Manicomio! :D

luca ha detto...

questa è una tipica battuta da frate! ;p