lunedì 4 giugno 2012

3croci

1. Cimabue
Lungo la parete destra ho incastrato nell'ordine: l'armadio Aspelund, tre metri ondeggianti di truciolato su cui svetta un valigione verde silvestre, la scrivania Lasse, sormontata da una vasta e semivuota libreria, e un attaccapanni ricoperto di maglie, cappotti e stracci. Ho piazzato la poltrona sfondata tra la porta e il comodino. Alla parete di fronte, Malm, la cassettiera, alta poco più di un metro, misura lo spazio che passa tra la finestra e il lavandino. Sopra la cassettiera, c'è una candela della sagrestia di fra Ludovico, ad illuminare un'icona di Nostro Signore coronata da tre fotografie di Sua Madre: l'immagine di una vetrata che raffigura Domenico ai piedi di Maria, la Madonna del Rosario di Moncalvo, un mosaico di padre Rupnik. Sopra questa piccola collezione di immagini sacre capeggia un poster del Crocifisso di Cimabue.


Quando il giorno è finito e la candela è accesa, io sprofondo nella poltrona e guardo quel crocifisso. Lo studentato sta per addormentarsi: l'ultima telefonata di un vicino di stanza, un giro di chiavi ad aprire una porta, padre Bendinelli che misura il corridoio recitando il rosario, i bisbigli di chi si augura la buonanotte, la piccola Agata che frigna dal palazzo vicino.  E' fissando quel dolente e umano crocifisso che io finisco le mie preghiere, leggo poche righe del De Vita Regulari e ripercorro con la mente le mie parole, le mie opere e le mie omissioni. E' un'attività penosa.

Fatico a ricordare quello che ho fatto e quello che mi è capitato, anche se, in fin dei conti, si tratta sempre delle solite cose, scandite dal ritmo della preghiera comune: la prima campana che suona alle sei e quaranta, così forte che non serve nemmeno la sveglia del cellulare; le lodi, gli sbadigli, la messa e qualche canto dalla voce ancora strozzata dal sonno; una colazione veloce, un kiwi e uno yoghurt; lo studio silenzioso della filosofia. L'ora media suona a mezzogiorno e mezzo e lo stomaco già brucia di appetito, in mezz'ora si mangia e quello che rimane fino alle due viene passato in ricreazione.

La ricreazione è un'attività che sta a metà tra lo svago e la penitenza. C'è chi gioca a biliardo, chi guarda chi gioca a biliardo, chi legge il giornale, chi gioca a carte, chi sgraffigna biscotti e dolciumi e un piccolo capannello di frati che chiacchiera al centro della sala comune. Tutti, però, fremono, perché la pennichella è sacra, alle quattro si va a lezione e poi, manco il tempo per pisciare, suona il vespro. Allora, ogni minuto è vitale e, quando scocca l'ora, scattiamo per rifugiarci in camera.

Dopo le lezioni, i vespri e la cena, ritorno in cella che sono quasi le nove, controllo la posta e sprofondo nella poltrona. Il Cristo di Cimabue ha il capo reclinato e sembra quasi dormire.

2. La cappella
Il crocifisso della cappella è un buco nel muro. La luce di un faretto, nascosto nel piccolo vano dietro il muro, attraversa la plastica colorata che ricopre il buco. Ai miei confratelli questo crocifisso non piace, lo considerano roba vecchia, una sorta relitto degli anni settanta da sostituire al più presto con qualcosa di più nuovo, o di più vecchio. Li capisco... ma a me piace tantissimo.

Quando tutte le altre lampade sono spente e solo il faretto lo illumina da dietro, il crocifisso sempra emanare luce propria. E' una luce violacea, colore dell'attesa e della penitenza, macchiata del rosso del sangue di Cristo. L'attraversa una linea nera, una figura stilizzata di uomo. Se la si guarda bene, vi si può scorgere la sofferenza e le urla di ogni persona, di quelle che abbiamo incontrato lungo le strade del centro storico e che non abbiamo nemmeno avuto il coraggio di guardare, dei rivenditori di “Piazza Grande”, di quel vecchio bolognese con niente altro che due sacchetti ricolmi di paccottaglia che cercava di vendere ai passanti di via Zamboni.

Se si guarda bene, si intravedono pure le angosce, la tristezza, la spossatezza dei nostri amici, di quelli che abbiamo incontrato al pub irlandese, di quelli che sono soli, di quelli che li ammazza il lavoro, di quelli che un lavoro non ce l'hanno più. Bologna è una grande città universitaria, io ho studiato poco lontano da qui, qui vive qualche mia vecchia conoscenza e per di qui passano in molti a salutarmi e, magari, a dare una sbirciatina al convento. Un frate a Bologna ci deve mettere molto impegno per isolarsi dalla vita del mondo, che ti rincorre fino ai piedi dell'Arca di Domenico. E meno male!

Gli amici che passano, dopo aver ammirato la fattura del tuo abito e la guglia del campanile che si scorge dal chiostro, ti ricordano che, dopo tutti, sei un privilegiato, perché puoi passare la mattina a studiare Platone e avere tutto il tempo che ti serve per riflettere, meditare e pregare, perché non ti devi preoccupare di spese e stipendio e hai qualcuno che ti stira le camicie e ti prepara da mangiare e perché vivi in un posto che trabocca di bellezza e non trai palazzi grigi e sovraffollati del Pilastro. Allora, nella preghiera notturna davanti a quel crocifisso luminoso, ringrazi il Signore per tutti i doni che hai ricevuto e Gli presenti tutte le fatiche di tutte le persone che hai incontrato e Gli chiedi di donare anche a loro un po' della tua pace conventuale.

Tra i riflessi violacei appaiono, anche, quasi nascoste, le nostre paure, i piccoli e grandi conflitti della vita comune, le relazione interrotte, le parole sbagliate, una vocazione che sembra svaporare, un Dio che non risponde mai e  che invece dovrebbe essere lì, in quel crocifisso. Ogni giorno bisogna combattere per conquistare e riconquistare la fraternità, che è la misura della nostra familiarità con Cristo. Si tratta di una battaglia fatta di gesti molto concreti: pulire una sala da incrostazioni oramai decennali, rimanere a guardare insieme un film che non piace, fare un piccolo regalo – un dvd, un libro e, perché no, un toscano ammezzato -, sopportare una battuta infelice e, quando è necessario, chiedere scusa. Sono banalità, ma sembrano montagne da scalare.

Intanto, la Sua luce rischiara la cappella. Non abbaglia, invita e culla la meditazione. E non c'è cosa più bella che rialzarsi in questa penombra e vedere dietro di sé un altro confratello in silenziosa preghiera.

3. La Menorah
Il servizio liturgico è una parte importante della vita di studentato. Ci sono rigorosissimi turni settimanali, che spetta al decano far rispettare in maniera inflessibile. L'accolito è il compito più ingrato, almeno per me, perché devo anticipare la sveglia di trenta minuti buoni per andare a preparare l'altare e, ricordate, in studentato ogni minuto è prezioso. Immaginatevi d'inverno la chiesa: gelida e oscura. Se sei ancora mezzo addormentato rischi di sbagliare il codice per disattivare l'allarme alla porta della sacrestia. Se ti sbagli, però, poi ti svegli di sicuro. Imbacuccato di cappa e cappotto, devi preparare i calici con il vino. E anche questo è un passaggio delicatissimo. Se si eccede con il vino, il diacono, alla purificazione, ti fa bere quello che avanza e il rischio è di cominciare la giornata alticci. Il terzo passaggio pericoloso è mettere tutti i vasi sacri su un vassoio e portarli in cappella. Chi ha competenze da cameriere regge il vassoio con una mano e con l'altra apre le porte. Gli altri stanno bene attenti a non inciampare in un gradino e a spargere vino e particole sul pavimento della basilica. Se si superano questi tre ostacoli indenni, il più è fatto e la giornata è cominciata bene.

Altro incarico non facile è il ceroferaio alla processione della Salve. Al termine dei vespri, infatti, si canta la Salve Regina e ci si dirige in processione, prima alla cappella del Rosario e poi a quella di Domenico. Due ceroferai aprono la processione e dettano il ritmo della camminata, la cui velocità non deve essere né troppo elevata né troppo lenta. Trovare l'equilibrio giusto è impresa ardua: con la coda dell'occhio sbirci il tuo collega di cero, calibri la distanza che manca al traguardo con la strofa che si sta cantando, qualche volta ti guardi alle spalle, per controllare che tutti ti seguano e per tutto il tragitto resisti alla tentazione di fare alla bersagliera.

Durante le solennità si sale di livello. Sull'altar maggiore della Basilica troneggiano sei enormi candele, tre a destra e tre a sinistra, con un crocifisso di bronzo nel mezzo. A qualcuno queste decorazioni liturgiche potrebbero parere un po' kitsch, oppure gli sembreranno molto preconciliari e tradizionaliste, o magari penserà che il sacrista ha deciso di svuotare i suoi vecchi armadi e darci una ripulita (e qualcun'altro, considerando la mia passione per il crocifisso viola della nostra cappella, si chiederà da che pulpito venga la predica!). Eppure, se si guarda tutto questo ambaradàn di roba dall'angolo nascosto tra l'altare e il coro, dove si rintanano gli accoliti durante il loro servizio, apparirà chiaro che l'altare è stato trasformato in un enorme candelabro: una gigantesca menorah piantata nel cuore di San Domenico.

Il tronco è solido, del legno massiccio dell'albero della vita. Sei bracci si stagliano verso l'alto e brillano e illuminano il tempio. Sono sei, come i giorni del lavoro, e bruciano l'olio, offerta della nostra fatica, che è, così, trasformata in luce. Il braccio al centro non ha altra fiamma che una croce, non illumina e non scalda se non chi lo guarda con gli occhi della fede, eppure gli altri sei sono ordinati a quest'ultimo, simbolo di Cristo che è sigillo di tutta la creazione. La luce del candelabro dice la presenza di Dio nella Chiesa, luce che giunge a illuminare ogni uomo, anche l'ultimo dei frati studenti, distratto tra i carboncini per l'incenso e la palla del calice.

La luce di Cristo diventa sfolgorante al momento della consacrazione, e allora per forza che si sbagliano i gesti del rito, che ci si dimentica il microfono spento, che si va a destra invece che a sinistra, che si incensa il diacono invece del celebrante e che si porge il pastorale al priore invece che al vescovo. E' cosa talmente ovvia che nessuno se la prende, nessuno ci bada nemmeno, perchè tutti sono catturati da quella luce.

Quando tutto è finito e la processione ha condotto tutti i frati sani e salvi in sacrestia, facciamo ci inchiniamo davanti ai nostri confratelli a onorare reciprocamente la brillantezza che ci è ancora rimasta appiccata  alla pelle. Poi si tolgono le pianete, le cotte e i camici. Si bada bene a mettere il turibolo fuori dalla finestra, perché altrimenti arrivano i pompieri. Ma in questo caso, più che la fiamma di Cristo, c'entra l'incenso che satura la sacrestia.

Questo post è apparso come articolo sul numero di giugno di Dominicus.

4 commenti:

Flip ha detto...

IDILLIACO :(

luca ha detto...

visto che siamo in tema:
http://www.youtube.com/watch?v=KIAtRqY2rnc

Studio Filosofico Domenicano ha detto...
Questo commento è stato eliminato dall'autore.
Studio Filosofico Domenicano ha detto...

grazie. bellissimo