Ogni società è attraversata da innumerevoli conflitti, che vengono risolti in modo pacifico. Solo in alcuni rari casi questi conflitti portano alla guerra. L'obiettivo di mediatori e operatori di pace non deve essere, pertanto, la risoluzione del conflitto, ma la sua trasformazione in senso nonviolento. Questo è il fulcro della critica di Galtung e Lederach alle teorie tradizionali di promozione della pace.
Se i teorici della risoluzione dei conflitti partono implicitamente dal presupposto che una guerra (o per lo meno le nuove guerre) sia sempre e comunque un gioco a somma negativa e, quindi, irrazionale: tutti perdono, quelli della trasformazione dei conflitti concedono che una guerra possa avere anche una somma zero: alcuni perdono, altri vincono. Ciò significa che alcuni attori della guerra hanno un interesse a perseguire i propri obiettivi con l'uso della violenza. La sfida degli operatori di pace non è, quindi, cercare di trasformare i leoni in agnelli, ma di cambiare i pay-off del gioco, in modo che l'uso della violenza sia meno remunerativo di strumenti non violenti. In altri termini, la trasformazione di un conflitto significa sostituire la politica alla guerra.
Più facile dirsi che a farsi. Ecco perchè.
1. Nella cartina politica del mondo, coperta interamente dai colori della sovranità statuale, si sono aperti dei buchi neri. Lo spazio politico non è più riempito completamente dagli stati. Negli interstizi dell'ordine dei monopoli della violenza, si è fatto largo il disordine della giungla, dell'anarchia, la guerra. Il disordine si trova geograficamente sia oltre i confini degli stati (negli stati falliti, dal Congo, alla Somalia, all'Afghanistan e all'Iraq), sia all'interno dei confini (nelle favela di Rio, nei vicoli di Napoli, etc.).
2. Alcuni di questi spazi di disordine hanno una acquisito una funzione economica. Essi servono all'economia globale. Servono per sfuggire ai costi imposti dallo stato (tasse, contratti di lavoro) e ai suoi divieti (al commercio di droghe ed altri merci illegali, al riciclaggio del denaro sporco). Si instaura così una relazione a doppio filo tra economica legale e illegale, ordine e disordine, benessere e miseria, che hanno la forma di catene internazionali di produzione: i paesi della coca esportano la pasta di coca in Brasile. Lì la pasta viene raffinata grazie ad agenti chimici prodotti in Brasile e Germania. La coca viene poi esportata nei mercati occidentali grazie alle armi prodotte negli Stati Uniti. Nella bilancia dei pagamenti di Gomorra, all'esportazione di droga fanno fronte le importazioni di armi e prodotti chimici.
In questo quadro la guerra non è il frutto di una umanità irrazionale o di un dilemma della sicurezza irrisolto, nè un metodo cruento per ottenere dei benefici economici o politici. La guerra è uno stato da mantenere e sfruttare: il passaggio dalla guerra alla politica significherebbe troncare queste catene internazionali di produzione, perdere delle rendite e delle fonti di profitto.
3. Altri spazi di disordine non hanno una utilità economica: in questi casi la guerra non è una condizione necessaria alla produzione, ma un costo. Ciò nonostante stati e imprese, grandi e piccole, si adattano al conflitto e finiscono per finanziarlo e perpetuarlo. Così è per i "blood diamonds". I diamanti vengono raccolti e venduti da bande armate a mediatori che li rivendono agli uffici delle imprese occidentali. De Beers non guadagna un penny dalla guerra in Congo, ciò nonostante compra i diamanti congolesi, e se non lo fa De Beers lo fa qualcun altro. Gli stati confinanti al Congo, Uganda e Zambia su tutti, si premurano di falsificare la provenienza delle pietre preziose, ottenendo pure loro una lucrosa fetta di profitti. Il mercato di diamanti c'è ed è competitivo e continua a pagare i costi della guerra per accaparrarsi posizioni di rendita sul territorio.
Se queste guerre non sono economicamente razionali, hanno pur sempre generato un insieme di interessi, rendite e relazioni che le perpetua e che bisogna sconfiggere per riportare alla politica queste zone di conflitto.
4. La guerra non sono un fenomeno locale, scollegato dal resto del mondo pacifico. La guerra ha radici profonde che arrivano fino al cuore del mondo ordinato e pacificato. La guerra è integrata in un sistema di relazioni transnazionali, che trascendono le capacità di controllo dei governi. I confini sono diventati porosi, incontrollabili. Li attraversano di contrabbando, uomini, merci e capitali. Non è possibile isolare le zone di conflitto da quelle di pace: le armi volano ovunque ci sia un acquirente. Stabilire un monopolio della violenza, riportare l'ordine e la politica è diventata un'impresa titanica.
In questo contesto le strategie di trasformazione di conflitto, che si limitano ad attori locali, programmi radio e workshops, sono velleitarie. Qui per trasformare una guerra è necessario trasformare il mondo.
Se i teorici della risoluzione dei conflitti partono implicitamente dal presupposto che una guerra (o per lo meno le nuove guerre) sia sempre e comunque un gioco a somma negativa e, quindi, irrazionale: tutti perdono, quelli della trasformazione dei conflitti concedono che una guerra possa avere anche una somma zero: alcuni perdono, altri vincono. Ciò significa che alcuni attori della guerra hanno un interesse a perseguire i propri obiettivi con l'uso della violenza. La sfida degli operatori di pace non è, quindi, cercare di trasformare i leoni in agnelli, ma di cambiare i pay-off del gioco, in modo che l'uso della violenza sia meno remunerativo di strumenti non violenti. In altri termini, la trasformazione di un conflitto significa sostituire la politica alla guerra.
Più facile dirsi che a farsi. Ecco perchè.
1. Nella cartina politica del mondo, coperta interamente dai colori della sovranità statuale, si sono aperti dei buchi neri. Lo spazio politico non è più riempito completamente dagli stati. Negli interstizi dell'ordine dei monopoli della violenza, si è fatto largo il disordine della giungla, dell'anarchia, la guerra. Il disordine si trova geograficamente sia oltre i confini degli stati (negli stati falliti, dal Congo, alla Somalia, all'Afghanistan e all'Iraq), sia all'interno dei confini (nelle favela di Rio, nei vicoli di Napoli, etc.).
2. Alcuni di questi spazi di disordine hanno una acquisito una funzione economica. Essi servono all'economia globale. Servono per sfuggire ai costi imposti dallo stato (tasse, contratti di lavoro) e ai suoi divieti (al commercio di droghe ed altri merci illegali, al riciclaggio del denaro sporco). Si instaura così una relazione a doppio filo tra economica legale e illegale, ordine e disordine, benessere e miseria, che hanno la forma di catene internazionali di produzione: i paesi della coca esportano la pasta di coca in Brasile. Lì la pasta viene raffinata grazie ad agenti chimici prodotti in Brasile e Germania. La coca viene poi esportata nei mercati occidentali grazie alle armi prodotte negli Stati Uniti. Nella bilancia dei pagamenti di Gomorra, all'esportazione di droga fanno fronte le importazioni di armi e prodotti chimici.
In questo quadro la guerra non è il frutto di una umanità irrazionale o di un dilemma della sicurezza irrisolto, nè un metodo cruento per ottenere dei benefici economici o politici. La guerra è uno stato da mantenere e sfruttare: il passaggio dalla guerra alla politica significherebbe troncare queste catene internazionali di produzione, perdere delle rendite e delle fonti di profitto.
3. Altri spazi di disordine non hanno una utilità economica: in questi casi la guerra non è una condizione necessaria alla produzione, ma un costo. Ciò nonostante stati e imprese, grandi e piccole, si adattano al conflitto e finiscono per finanziarlo e perpetuarlo. Così è per i "blood diamonds". I diamanti vengono raccolti e venduti da bande armate a mediatori che li rivendono agli uffici delle imprese occidentali. De Beers non guadagna un penny dalla guerra in Congo, ciò nonostante compra i diamanti congolesi, e se non lo fa De Beers lo fa qualcun altro. Gli stati confinanti al Congo, Uganda e Zambia su tutti, si premurano di falsificare la provenienza delle pietre preziose, ottenendo pure loro una lucrosa fetta di profitti. Il mercato di diamanti c'è ed è competitivo e continua a pagare i costi della guerra per accaparrarsi posizioni di rendita sul territorio.
Se queste guerre non sono economicamente razionali, hanno pur sempre generato un insieme di interessi, rendite e relazioni che le perpetua e che bisogna sconfiggere per riportare alla politica queste zone di conflitto.
4. La guerra non sono un fenomeno locale, scollegato dal resto del mondo pacifico. La guerra ha radici profonde che arrivano fino al cuore del mondo ordinato e pacificato. La guerra è integrata in un sistema di relazioni transnazionali, che trascendono le capacità di controllo dei governi. I confini sono diventati porosi, incontrollabili. Li attraversano di contrabbando, uomini, merci e capitali. Non è possibile isolare le zone di conflitto da quelle di pace: le armi volano ovunque ci sia un acquirente. Stabilire un monopolio della violenza, riportare l'ordine e la politica è diventata un'impresa titanica.
In questo contesto le strategie di trasformazione di conflitto, che si limitano ad attori locali, programmi radio e workshops, sono velleitarie. Qui per trasformare una guerra è necessario trasformare il mondo.
7 commenti:
So già che qualunque commento è banale perché il post è portatore di un ragionamento lineare e condivisibile.
Ma mi chiedo se le due teorie debbano per forza essere diverse: insomma, la prima indica davvero "trasformare un lupo in un agnello"? Anche se posso sembrare utopico, a me pare di no: io penso comunque che, o perché sia il male sia il bene siano innati nella natura umana, o perché l'uomo si trova comunque a un fifty fifty tra due entità non innate ma comunque presenti, quella del bene e del male, si tratta di far prevalere il bene al male; quindi non di traformare l'uomo, ma di indirizzarlo in una cosa che comuqnue a lui è relazionata, non totalmente estranea. Bisogna far prevalere l'interesse del bene, che a mio avviso non è di natura economica o politica o altro. Bisogna scoprire il piacere del bene, perché c'è piacere quando si fa bene. Capisco però che questa è un'impresa molto molto difficile rispetto alle cose materiali che procurano anch'esse un piacere, immediato anche se effimero.
penso che i conflitti non nascano necessariamente perche' qualcuno e' "cattivo" e vuole fare del male. il punto secondo me fondamentale e' capire quando e perche' un conflitto diventa violento.
le ragioni per cui questo accade sono innumerevoli. io ho cercato di evidenziare alcuni aspetti delle "nuove guerre", che sono la forma di violenza organizzata piu' rilevante del nostro tempo.
nelle nuove guerre gli aspetti economici contano e non sono localizzati ma globali. il punto era evidenziare che noi occidentali abbiamo una responsabilita' oggettiva rispetto a questi conflitti. ma ce ne rendiamo conto?
la "conversione dei lupi" parte qui da noi, non laggiu' nella giungla. e detto tra noi, e' roba che riesce solo al cristo.
luca
post molto bello.
cambiare i payoff... interessante.
un altro modo secondo me è ridurre la distanza mediatica, in modo da far entrare l'opinione pubblica nel conto.
grazie supra.
con i nostri cari concittadini ci si lavora.
Non necessariamente il male ci deve rendere cattivi. Basta che agisca su un impulso o su qualcosa di molto sensibile del nostro essere.
Comunque sia, il tuo post non voleva essere filosofico ma concreto, e quindi desisto su questo sentiero.
Rendersene conto, è un'espressione così banale che costa fatica, più di quanto si pensi. La gente non si ricorda cosa ha mangiato la settimana prima, figuriamoci se possiamo chiederle di studiarsi le cause di certi fenomeni come la guerra! Purtroppo si vive nell'immediato, e l'immediato ci dà una realtà dei fatti ma senza una spiegazione logica. E così succede che il terrorismo islamico sia frutto solo di quattro scervellati che diventano kamikaze chissà perché. Oppure questo immediato è frutto di una propaganda, e così mentre un film western ti racconta quanto erano cattivi gli indiani che attaccavano gli yankees, noi sappiamo che i pellerossa semplicemente si difendevano dall'avanzata degli americani.
Sinceramente non so che miracoli usi Cristo, da uomo posso solo pensare che per convincere usi nient'altro che il disvelamento della verità.
penso tu abbia ragione.
viviamo nell'immediato.
http://www.youtube.com/watch?v=05MHxcIWpoE&feature=related
vale più di mille parole
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