Il libretto di Lakoff, Non pensare all'elefante, non è solo un fondamentale breviario di comunicazione politica, zeppo di consigli utili alla sinistra politica mondiale. Infatti, contiene una interessante ipotesi sul comportamento degli elettori alternativa al modello "drogheria" (magari qualcuno lo conosce come il paradosso -chissà poi perchè paradosso- del gelataio nella efficacie versione italiana proposta dal sempre laico Odifreddi).
Il modello del "gelataio" è stato finora tanto dominante in politologia, quanto poco compreso. In soldoni, si immagina lo spazio politico-partitico come un continuum che va da destra a sinistra (una spiaggia), in cui i partiti (gelatai) si collocano per massimizzare il numero dei propri elettori (clienti). Se c'è un solo gelataio, si piazza dove vuole, tanto tutti compreranno il cornetto da lui. Poniamo che si collochi nel centrodestra della spiaggia. Ma se ne arriva un secondo? Il secondo gelataio si collocherà affianco del primo, ma dal lato sinistro, così che tutti quelli che arrivano da sinistra (anche dal fondo sinistra della spiaggia) compreranno da lui (il gelataio a loro più vicino) il loro cornetto. A questo punto si scatena una competizione tra gelatai che li porterà a collocarsi uno di fronte all'altro, equidistanti dagli estremi della spiaggia, cioè al centro.
Questa metafora è inventata da tale Downs negli anni 50 per spiegare come mai repubblicani e democratici avessero posizioni politiche sempre più simili e parte da alcuni presupposti che non sono dati necessariamente in tutti i sistemi politici.
1. Innanzitutto, non ci dice dove sia il centro della spiaggia. In Germania, ad esempio, è molto più a sinistra che in Gran Bretagna. Non ci dice nemmeno che è possibile spostarlo, il centro, come, ad esempio, riuscì alla Tatcher.
2. Ma c'è di più. Il sistema politico (non solo elettorale) deve essere maggioritario. Il sistema presidenziale USA è fortemente maggioritario (si compete per un posto solo, la Presidenza, con un turno unico) e la gara per la presidenza forma anche il panorama partitico. Risultati simili sono ottenuti dal semipresidenziale con maggioritario a doppio turno francese (dove di partiti ce ne sono tanti, ma quelli che contano sono due).
3. In Gran Bretagna il sistema elettorale è maggioritario a turno unico, ma si compete per un governo parlamentare. La corsa al centro del modello del gelataio funziona fin tanto che i liberali decidono di andare a competere da soli. Nel momento in cui decidessero di fare delle alleanza pre-elettorali con uno dei due partiti maggiori, si finirebbe come in Italia (e il perchè non lo facciano Downs non ce lo dice).
4. In Italia si competeva con un sistema parzialmente maggioritario per un governo parlamentare e le alleanze pre-elettorali, anche quella con l'ultimo dei partiti, sono indispensabili per la vittoria. E siccome ogni voto può essere decisivo, di partiti non ce n'è uno, ma tantissimi. In Italia, quindi, la potenza esplicativa del nostro modello è più limitata. Intanto se un "gelataio" si sposta al centro" ne spunta subito uno ad occupare lo spazio lasciato al centro. Si formano, però, delle coalizioni. L'arco delle posizioni incluse dalla coalizione è molto vario e decisamente non di centro. Il voto di centro è, però, quello decisivo. E', come forse direbbe qualche economista, quello al margine per massimizzare la propria utilità elettorale. E' uno solo, il voto, ma stabilisce il prezzo (cioè il programma politico). Naturalmente la cosa funziona fin tanto che i partiti all'estremità dell'arco politico decidono che è meglio stare all'opposizione che influenzare marginalmente il governo.
5. E in un sistema consociativo (spesso con legge elettorale proporzionale), come ad esempio la prima repubblica italiana o il Belgio (quando era ancora uno stato)? Grosso modo succede così: tutti votano quel che gli pare, però il governo lo si fa intorno ad un partito di centro (pivot) che unisce centrosinistra e centrodestra.
La sinistra radicale, quindi, si può mettere il cuore in pace? No, dice Lakoff: la corsa al centro è una metafora che distorce la realtà, o, al massimo, una profezia che si autoavvera. E ci propone un modello alternativo:
1. Non esiste un continuum da destra a sinistra, piuttosto ci sono due insiemi che si intersecano sovrapponendosi parzialmente. L'insieme di destra è quello di coloro che fanno riferimento ai valori e all'idea di famiglia (e una nazione è una grande famiglia) del "padre severo", che educa i figli a bastonate (gli stati canaglia con le bombe, i disoccupati tagliando l'assistenza sociale). A sinistra si fa riferimento ai valori e alla famiglia del "genitore premuroso" (con aiuti allo sviluppo e programmi di welfare).
2. Una parte, più o meno consistente, dell'elettorato fa riferimento, a seconda dei casi, a uno dei due modelli (a casa severo, al lavoro premuroso; severo in economia, premuroso in politica estera). La sfida politica è quella di risvegliare i propri valori (severità o premurosità) in coloro che si possono riconoscere in entrambi. La corsa al centro rischia di essere un esercizio masochistico, perchè è un modo per propagandare valori che l'altra parte politica rappresenta con maggiore credibilità. Quello che i politici devono fare è mostrare come i loro valori siano gli stessi dell'elettorato di centro (o meglio "intersecante"). Non devono assolutamente "diventare di centro", diventare "intersecanti", creando confusione e generando astensionismo.
3. Il modello suggerito da Lakoff ha il grande merito di evitarci l'arrampicata sugli specchi per spiegare la vittoria dei "moderati" Bush e Berlusconi (ma anche della Tatcher o Sarkozy). Rimane lo schema rigidamente bipolare (destra-sinistra), ma riesce ad includere anche il multipartitismo (basato su differenti applicazioni pratiche degli stessi valori e su possibili mix di intersezioni).
Coraggio, compagni duripuristi, forse una speranza -elettorale- c'è anche per voi!
ps. buon anno a tutti.
pps. in Kenya i capi dell'opposizione sono ancora a piede libero e le televisioni, pare, hanno ripreso a trasmettere politica.
lunedì 31 dicembre 2007
domenica 30 dicembre 2007
Kenya in Caos
I fatti:
- Mwai Kibaki, presidente in carica del Kenya, e' stato proclamato vincitore delle elezioni che si sono sostenute venerdi' scorso. Oggi ha prestato giuramento.
- La differenza tra lui e l'altro principale candidato, Raila Odinga, al computo finale, e' di 230.00 voti.Ci sono molti dubbi sulla regolarita' delle votazioni. Il risultato e' stato annunciato con notevole ritardo. Gli osservatori internazionali hanno confermato che sono avvenuti dei brogli.
- L'opposizione non ha riconosciuto la sconfitta e ha annunciato una cerimonia di giuramento alternativa nel parco principale di Nairobi.
- Scontri e violenze vengono registrate in tutto il paese.
- Il governo ha proibito ogni trasmissione televisiva.
- Voci non confermate vogliono Odinga sotto arresto o rifugiato nell'ambasciata americana.
Chris Blattman sta aggiornato il suo blog "live" sulla situazione, segnalando i post della blogosfera kenyota e messaggi che gli arrivano da amici in Kenya. Seguite i link che vi segnala lui, se volete approfondire.
La stampa kenyota non e' cosi' aggiornata, comunque qui i link ai due principali quotidiani: Daily Nation e the Standard.
Questo e' un post che non avrei mai voluto scrivere. A sangue freddo provero' a buttare giu' qualche analisi.
venerdì 28 dicembre 2007
Metodo Ciampi dove lavoro io
Indipendentemente dalla loro presunta età mentale, le donne dove lavoro io hanno un'idea molto vaga di bilancio, sono antropologicamente estranee al concetto di bilancio in pareggio e ignorano convintamente i vincoli di bilancio, la differenza tra liquidità e disponibilità effettiva ed ogni cosa che abbia a che fare con la sostenibilità finanziaria.
Nei fatti, adottano principi di spesa opposti a quelli della sostenibilità, che diventano una mera, trascurabile variabile dipendente. La loro regola d'ora è: primo spendere. Risparmiare (= posticipare una spesa) un esercizio inutile, visto che si spende sempre e comunque, indipendentemente dal grado di voluttuarietà di una merce. E quando si finisce in bancarotta? Si fanno spallucce, tanto i soldi non erano loro.
E' possibile che questo sia un approccio di genere (femminile) alla finanza. Ma è più probabile che sia non sia altro che la logica della Cool Britannia fatta propria dalle signore di dove lavoro io. Un comico tedesco, di stanza a Londra, sottolineava come, nel momento in cui gli interessi della carta di credito superano il suo reddito, un inglese non si mette le mani nei capelli, ma va in banca ad aprire una seconda carta di credito. Un vecchio ministro delle finanze tatcheriano, in televisione, dopo aver fatto tutti i complimenti possibili a Gordon Brown, notava come la straordinaria crescita economica britannica poggiava su un mare di debito privato. E si augurava un approdo indolore alla sostenibilità.
Gli anni del Labour sembrano, da questa prospettiva, una sorta di anni 80 italiani, dieci anni più tardi. Tony Blair è, in fin dei conti, un socialista riformista alla Craxi e ha avuto anche lui i suoi finanziamenti illeciti. Una differenza importante è che in Italia il debito era pubblico, mentre qui, nel Regno Unito, è privato. Quindi? Si fanno spallucce, tanto i soldi non erano loro.
In questo clima di irresponsabilità diffusa, il mio capo ha adottato un metodo infallibile: il metodo Ciampi: dichiarare che siamo sempre tutti sull'orlo del fallimento, dichiarare che abbiamo il doppio dei debiti che effettivamente abbiamo, proibire ogni spesa (anche quasi necessaria) per mancanza di fondi, centralizzare il controllo della spesa e tenere rigorosamente nascosti i dati reali sul nostro bilancio. Anche se non ce lo chiede l'Europa, ce lo chiede la Ditta, che fa sempre la sua porca figura. Il mio capo ha il mio incondizionato supporto, anche se ultimamente ha avuto qualche pericoloso cedimento. L'altro giorno, per esempio, ha detto che non è il caso di andare a fare la spesa all'hard discount.
Smidollato. Si comincia sempre così.
Nei fatti, adottano principi di spesa opposti a quelli della sostenibilità, che diventano una mera, trascurabile variabile dipendente. La loro regola d'ora è: primo spendere. Risparmiare (= posticipare una spesa) un esercizio inutile, visto che si spende sempre e comunque, indipendentemente dal grado di voluttuarietà di una merce. E quando si finisce in bancarotta? Si fanno spallucce, tanto i soldi non erano loro.
E' possibile che questo sia un approccio di genere (femminile) alla finanza. Ma è più probabile che sia non sia altro che la logica della Cool Britannia fatta propria dalle signore di dove lavoro io. Un comico tedesco, di stanza a Londra, sottolineava come, nel momento in cui gli interessi della carta di credito superano il suo reddito, un inglese non si mette le mani nei capelli, ma va in banca ad aprire una seconda carta di credito. Un vecchio ministro delle finanze tatcheriano, in televisione, dopo aver fatto tutti i complimenti possibili a Gordon Brown, notava come la straordinaria crescita economica britannica poggiava su un mare di debito privato. E si augurava un approdo indolore alla sostenibilità.
Gli anni del Labour sembrano, da questa prospettiva, una sorta di anni 80 italiani, dieci anni più tardi. Tony Blair è, in fin dei conti, un socialista riformista alla Craxi e ha avuto anche lui i suoi finanziamenti illeciti. Una differenza importante è che in Italia il debito era pubblico, mentre qui, nel Regno Unito, è privato. Quindi? Si fanno spallucce, tanto i soldi non erano loro.
In questo clima di irresponsabilità diffusa, il mio capo ha adottato un metodo infallibile: il metodo Ciampi: dichiarare che siamo sempre tutti sull'orlo del fallimento, dichiarare che abbiamo il doppio dei debiti che effettivamente abbiamo, proibire ogni spesa (anche quasi necessaria) per mancanza di fondi, centralizzare il controllo della spesa e tenere rigorosamente nascosti i dati reali sul nostro bilancio. Anche se non ce lo chiede l'Europa, ce lo chiede la Ditta, che fa sempre la sua porca figura. Il mio capo ha il mio incondizionato supporto, anche se ultimamente ha avuto qualche pericoloso cedimento. L'altro giorno, per esempio, ha detto che non è il caso di andare a fare la spesa all'hard discount.
Smidollato. Si comincia sempre così.
giovedì 27 dicembre 2007
Kilombisti: non pensate all'elefante!
Nel suo famoso saggio, Non pensare all'elefante, il cognitivista George Lakoff parla dei progressisti americana, ma è come se parlasse della sinistra bloghettara nostrana. Ecco come ci descrive:
Poi Lakoff non ci risparmia qualche buon consiglio (che poi è anche una delle ragioni per cui abbiamo fatto Kilombo):
Bene, ora che lo avete letto e mandato a memoria, siamo pronti per andare alle elezioni.
Dal punto di vista di uno studioso delle scienze cognitive (...) esistono 6 tipi fondamentali di progressisti (...). Condividono tutti gli stessi valori, ma hanno delle differenze.Tutti e sei questi tipi di progressisti sono esempi dell'etica del genitore premuroso. Il problema è che molte persone che condividono una di queste modalità di pensiero non si rendono conto che la loro è solo una variante di questo modello.
- I progressisti socioeconomici pensano che tutto abbia a che vedere con il denaro e con la classe sociale, e che alla fine tutte le soluzioni siano di tipo economico o di classe.
- I progressisti identitari sostengono che il loro gruppo è oppresso ed è ora che vengano riconosciuti i suoi diritti.
- Gli ambientalisti ragionano in termini di sostenibilità, sacralità della terra e di difesa delle popolazioni indigene.
- I difensori delle libertà civili sono decisi a difendere la libertà da qualsiasi minaccia.
- Gli spiritualisti hanno una forma di spiritualità premurosa, la loro esperienza spirituale è legata al rapporto con gli altri e la loro pratica spirituale consiste nel mettersi al servizio degli altri e della comunità. Possono essere cattolici. protestanti, ebrei, musulmani, buddisti, adoratori della Dea Madre o pagani della setta Wicca.
- Gli antiautoritari sono convinti che esistono varie forme di autorità illegittima e che dobbiamo combatterle, che si tratti delle grandi imprese o di chiunque altro.
Poi Lakoff non ci risparmia qualche buon consiglio (che poi è anche una delle ragioni per cui abbiamo fatto Kilombo):
Ogni mercoledì, Grover Norquist riunisce un gruppo di leader di tutta le destra, circa ottanta persone. Si incontrano e discutono. in questo modo possono scoprire le differenze tra loro, cercare un accordo, e quando non lo trovano qualcuno cede (...). Tra i progressisti non succede nulla del genere, perchè ci sono troppe persone convinte che quello che fanno loro è la cosa giusta da fare. Non è un modo di procedere intelligente. E' destinato alla sconfitta.Lakoff si dilunga molto nello spiegare che l'egemonia conservatrice non nasce dal nulla, ma da grossi investimenti fatti per 40 anni in forma di think tanks, centri di ricerca, case editrici, stampa etc etc. State pensando anche voi ai soldi di Tocque-ville e all'artigianalità low cost di Kilombo?
Bene, ora che lo avete letto e mandato a memoria, siamo pronti per andare alle elezioni.
domenica 23 dicembre 2007
Sarajevo, Sri Lanka.
Spesso e volentieri il mondo guarda se stesso con i nostri occhi, di occidentali. Quasi mai, invece, capita a noi occidentali di guardarci con gli occhi degli altri. Che pensieri ed emozioni, per esempio, generano le ultime guerre dei Balcani in un giovane indiano?
E' una giovane giornalista e consulente in materia di sviluppo, che si occupa soprattutto Sri Lanka. Benita è andata a Sarajevo per la prima volta l'inverno scorso, per un convegno sul tema del genocidio. Sperava di portare a casa qualche lezione utile per lo Sri Lanka.
Ne è uscito un articolo pubblicato da The Hindu. Eccolo.
Probabilmente non avrei scritto davvero cose tanto differenti (solo molto peggio). Forse le differenze culturali si appiattiscono di fronte a simili tragedie. I sentimenti che si provano di fronte ad esse sono comuni a tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro latitudine.
Sono considerazioni banali, ma da tenere a mente quando ci viene la tentazione di fare i relativisti culturali: i diritti umani non sono per tutti, i diritti umani sono un valore occidentale, la democrazia è aliena alla cultura asiatica etc etc. Al tempo stesso, l'articolo di Benita è una dimostrazione di come sia efficacie la legittimazione in negativo dei diritti umani proposta da Ignatieff: i diritti umani servono ad evitare Auschwitz, Srebrenica, il Rwanda, il Nepal, lo Sri Lanka (?).
E' una giovane giornalista e consulente in materia di sviluppo, che si occupa soprattutto Sri Lanka. Benita è andata a Sarajevo per la prima volta l'inverno scorso, per un convegno sul tema del genocidio. Sperava di portare a casa qualche lezione utile per lo Sri Lanka.
Ne è uscito un articolo pubblicato da The Hindu. Eccolo.
Probabilmente non avrei scritto davvero cose tanto differenti (solo molto peggio). Forse le differenze culturali si appiattiscono di fronte a simili tragedie. I sentimenti che si provano di fronte ad esse sono comuni a tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro latitudine.
Sono considerazioni banali, ma da tenere a mente quando ci viene la tentazione di fare i relativisti culturali: i diritti umani non sono per tutti, i diritti umani sono un valore occidentale, la democrazia è aliena alla cultura asiatica etc etc. Al tempo stesso, l'articolo di Benita è una dimostrazione di come sia efficacie la legittimazione in negativo dei diritti umani proposta da Ignatieff: i diritti umani servono ad evitare Auschwitz, Srebrenica, il Rwanda, il Nepal, lo Sri Lanka (?).
giovedì 20 dicembre 2007
Un giro intorno a Londra. Retrospettiva.
12 tappe, 224 chilometri, 8 mesi tra la prima tappa e l'ultima. Questi sono i numeri del London Orbital Outer Path, il giro intorno a Londra. Non che mi abbia regalato chissà quali panorami, d'altronde è difficile stupire chi, quando esce di casa, vede cose così. Però la lotta tra natura e civiltà che si svolge agli estremi lembi della città è appassionante, ricca di suggestioni e, in qualche modo, profetica.
Le prime tre tappe, oltre ad essere un viaggio nello spazio in direzione sud-ovest, sono state anche una esplorazione della stratificazione sociale della città: il degrado della periferia, il desiderio di pace e natura della borghesia, la memoria e la leggenda dell'aristocrazia. Poi si raggiunge il punto più meridionale di Londra, si sale sulla collina di Addington e la città ci offre il suo didietro, da sud verso nord.
Intanto imparo che ad ogni buon camminatore servono un buon paio di scarponi (in Inghilterra soprattutto per proteggersi dal fango), una buona giacca a vento (un cartellone pubblicitario, con un fondo di verità, ricordava che non esistono tempi atmosferici brutti, ma solo abbigliamento inadeguato), una bussola (chè non è come da noi che si va o in alto o in basso) e una guida. Più avanti imparerò che anche Google Maps può essere utile.
La risalita verso settentrione è forse la parte più idilliaca del Loop, o forse è la stagione, incomincia a farsi primavera, che rende tutta la mia camminata più piacevole. Emerge, come un fiume carsico, pure la storia, da Enrico VIII alla battaglia d'Inghilterra. La quinta tappa è decisamente la mia preferita.
Nello zaino ci vanno da bere (thè, un litro è sufficiente), da mangiare (uno o due panini, frutta secca, frutta fresca - le barre cereali no, perchè mi fanno sete), un ricambio (calzini - molto ma molto importanti, maglietta, maglia pesante). Questo basta e avanza.
Dopo di chè si raggiunge il Tamigi, e saranno fiumi e canali ad accompagnarmi per un bel po'. Ho potuto apprezzarne il contributo all'economia, anche da un punto di vista prettamente sonoro. L'odore dolciastro d'acqua dolce m'è entrato nelle ossa e, ad un certo punto, non ne potevo proprio più. Intanto si fa estate, e con più luce a disposizione, cammino anche di più. Mi metto a fantasticare della guerra. Mangio i primi frutti. Mi bevo un radler per celebrare la fine del giro, dalla sponda opposta di dove ero partito 8 mesi prima, che faceva freddo e piovigginava.
Alla fine del giro posso indicare con certezza quali sono i nemici del viandante:
Le prime tre tappe, oltre ad essere un viaggio nello spazio in direzione sud-ovest, sono state anche una esplorazione della stratificazione sociale della città: il degrado della periferia, il desiderio di pace e natura della borghesia, la memoria e la leggenda dell'aristocrazia. Poi si raggiunge il punto più meridionale di Londra, si sale sulla collina di Addington e la città ci offre il suo didietro, da sud verso nord.
Intanto imparo che ad ogni buon camminatore servono un buon paio di scarponi (in Inghilterra soprattutto per proteggersi dal fango), una buona giacca a vento (un cartellone pubblicitario, con un fondo di verità, ricordava che non esistono tempi atmosferici brutti, ma solo abbigliamento inadeguato), una bussola (chè non è come da noi che si va o in alto o in basso) e una guida. Più avanti imparerò che anche Google Maps può essere utile.
La risalita verso settentrione è forse la parte più idilliaca del Loop, o forse è la stagione, incomincia a farsi primavera, che rende tutta la mia camminata più piacevole. Emerge, come un fiume carsico, pure la storia, da Enrico VIII alla battaglia d'Inghilterra. La quinta tappa è decisamente la mia preferita.
Nello zaino ci vanno da bere (thè, un litro è sufficiente), da mangiare (uno o due panini, frutta secca, frutta fresca - le barre cereali no, perchè mi fanno sete), un ricambio (calzini - molto ma molto importanti, maglietta, maglia pesante). Questo basta e avanza.
Dopo di chè si raggiunge il Tamigi, e saranno fiumi e canali ad accompagnarmi per un bel po'. Ho potuto apprezzarne il contributo all'economia, anche da un punto di vista prettamente sonoro. L'odore dolciastro d'acqua dolce m'è entrato nelle ossa e, ad un certo punto, non ne potevo proprio più. Intanto si fa estate, e con più luce a disposizione, cammino anche di più. Mi metto a fantasticare della guerra. Mangio i primi frutti. Mi bevo un radler per celebrare la fine del giro, dalla sponda opposta di dove ero partito 8 mesi prima, che faceva freddo e piovigginava.
Alla fine del giro posso indicare con certezza quali sono i nemici del viandante:
- gli autisti e, si badi bene, non le macchine, chè se non ci fosse nessuno a guidarle se ne starebbero nei garage e non a sgommare su tutte le strisce d'asfalto che attraversano l'isola, ricordandoti che non sei mai, ma proprio mai veramente solo; e che l'aria non è mai, ma proprio mai, veramente pulita. Mortali.
- i giocatori di golf e, si badi bene, non i campi da golf, che senza cinquantenni panzuti e sfaccendati che tirano in giro, praticamente a caso, palline bianche bastanti a stendere ogni avventato passante, sarebbero adattissimi a fare picnic. Pericolosi.
- i cavalli e, si badi bene, non i fantini, che se andassero a piedi non rovinerebbero i sentieri rendendoli delle paludi attraversabili solo con estremo sprezzo del pericolo e dello sporco (qualità che, tra l'altro, ho). Maleducati.
- i ciclisti, che ti sfrecciano a lato e facendoti il pelo alle spalle, sempre e comunque in discesa. In tutte le mie camminate non ne ho mai visto uno farsi un po' di seria pendenza. Rimane un mistero come riescano a raggiungere la cima da cui si gettano a tutto pedale. Probabilmente in macchina. Ridicoli.
sabato 15 dicembre 2007
Disabili liberi
Una delle parole d'ordine della mia ditta è "choice", scelta. Il mio lavoro consisterebbe, infatti, nel permettere ai miei clienti (cioè i disabili) di fare il numero più alto possibile di scelte indipendenti. L'idea mi piace molto, fa tanto Amartya Sen ed pare pure molto sensata. Solitamente, "l'abile" è svelto a decidere al posto del disabile, abusando così del proprio presunto vantaggio intellettivo: il tipo di sandwich, il gusto delle patatine, quanti soldi spendere e come e dove andare e come: alla fine è sempre l'educatore che sceglie, se non altro perchè si fa prima che a chiedere e comunque l'educatore sa sempre sempre cosa è meglio fare. L'educatore è un po' come Dio.
Ma, dicevo appunto, noi siamo diversi e promuoviamo la libertà di scelta del disabile. Poi, però, affianco alla parola d'ordine "choice", ne affianchiamo un'altra, "duty of care", l'obbligo di cura. E' una parola d'ordine bastarda perchè si può allargare all'infinito. Si parte dal comprensibile fatto che se un disabile vuole buttarsi dalla finestra è mio compito tentare di impedirglielo (se non altro perchè dopo nei casini ci finisco io). Si arriva però fino alla scelta delle scarpe da tennis, che devono essere appropriate all'età e al genere. Le scarpe rosa di sailor moon il disabile, maschio trentenne, se le può tranquillamente scordare. E pure i soldi bisogna saperli maneggiare e non si può spendere un salario in taxi. Il disabile, certo, è incoraggiato a fare tutte le scelte del mondo, baste che queste siano socialmente rispettabili e ragionevoli. Il disabile, in altre parole, non può sbagliare ed è il dovere di cura dell'educatore impedirglielo. E l'educatore ritorna Dio.
Anzi, più di Dio, perchè Dio, alla fin fine, ci lascia tutta la choice che ci pare, anche di buttarmi giù dalla finestra e persino di prendere a bazookate il mio vicino di casa. Ci ha lasciati liberi di andare contro le norme sociali, di sbagliare e di continuare a farlo. Ma, ovviamente, noi, per fortuna, non siamo mica disabili.
Ma, dicevo appunto, noi siamo diversi e promuoviamo la libertà di scelta del disabile. Poi, però, affianco alla parola d'ordine "choice", ne affianchiamo un'altra, "duty of care", l'obbligo di cura. E' una parola d'ordine bastarda perchè si può allargare all'infinito. Si parte dal comprensibile fatto che se un disabile vuole buttarsi dalla finestra è mio compito tentare di impedirglielo (se non altro perchè dopo nei casini ci finisco io). Si arriva però fino alla scelta delle scarpe da tennis, che devono essere appropriate all'età e al genere. Le scarpe rosa di sailor moon il disabile, maschio trentenne, se le può tranquillamente scordare. E pure i soldi bisogna saperli maneggiare e non si può spendere un salario in taxi. Il disabile, certo, è incoraggiato a fare tutte le scelte del mondo, baste che queste siano socialmente rispettabili e ragionevoli. Il disabile, in altre parole, non può sbagliare ed è il dovere di cura dell'educatore impedirglielo. E l'educatore ritorna Dio.
Anzi, più di Dio, perchè Dio, alla fin fine, ci lascia tutta la choice che ci pare, anche di buttarmi giù dalla finestra e persino di prendere a bazookate il mio vicino di casa. Ci ha lasciati liberi di andare contro le norme sociali, di sbagliare e di continuare a farlo. Ma, ovviamente, noi, per fortuna, non siamo mica disabili.
domenica 9 dicembre 2007
Amnesty International e il diritto all'aborto
A giugno il Cardinal Martino rilasciò un'intervista ad un giornale americano invitando i cattolici a ritirare il proprio sostegno ad Amnesty International per via della campagna di AI a favore del diritto di aborto in caso di stupro.
La replica di AI è affidata ad un comunicato stampa denso di contenuti, alcuni dei quali meritano un'attenta riflessione, sullo sfondo, magari, delle tesi sostenute da Ignatieff nella sua apologia dei diritti umani. In sintesi AI spiega:
a) di non voler promuovere il diritto all'aborto in quanto tale,
b) che in alcuni casi l'aborto è necessario per permettere alla donna di poter godere della pienezza dei suoi diritti sociali e alla salute.
Il comunicato è interessante perchè evidenzia come il godimento di diritti di terza generazione (civili, ambientali o altro) possa essere una precondizione per il godimento dei diritti di seconda e prima generazione (sociali e politici), esattamente come i diritti sociali vennero promossi come precondizione per un effettivo godimento di quelli politici.
AI ingaggia così una nuova battaglia per l'ampliamento dello spettro dei diritti, oltre a quella per i diritti già riconosciuti. Di più, sostiene che queste due battaglie sono inestricabilmente legate. Questa posizione è perfettamente comprensibile, comporta però alcune difficoltà.
Il più grande capitale nelle mani di AI è il riconoscimento internazionale ottenuto grazie ad una imparziale ed inflessibile difesa dei diritti umani riconosciuti dalla principali convenzioni internazionali. Il tentativo di estendere il campo di battaglia, specialmente sulla questione molto delicata e dibattuta dell'aborto, rischia di screditare AI come strumento di imperialismo culturale occidentale soprattutto di fronte a quelle popolazioni in cui la difesa dei diritti umani è più urgente. In altre parole, l'allargamento dei diritti rischia di rendere meno efficacie la difesa dei diritti già esistenti: quanto più AI si presenta come soggetto politico, tanto meno forte sarà la sua legittimazione.
AI ha considerato questo rischio? Se sì perchè lo ha considerato non rilevante?
Una seconda serie di perplessità nasce dai dubbi che la difesa dei diritti sociali e sanitari delle donne debba necessariamente passare attraverso la difesa del diritti all'aborto, anche in situazioni drammatiche come lo stupro. Se una donna, in seguito ad evento così drammatico, viene esclusa dalla sua comunità, promuovere l'aborto come diritto non è forse un darla vinta alla comunità che la esclude? Non ha forse più valore una campagna per difendere la dignità della donna anche e soprattutto quando essa è vittima, piuttosto che aggiungere violenza a violenza? Lo stesso si può dire delle cure sanitarie, che devono valere indipendentemente dal fatto che la donna porti in grembo un figlio concepito con la violenza. Insomma, l'aborto non annulla lo stupro ed è difficile capire come un aborto possa effettivamente restituire alla donna i propri diritti umani. La connessione tra diritto all'aborto e altri diritti mi pare molto labile, non convincente, almeno non al punto da ridurre il rischio di delegittimazione a cui accennavo prima.
Cosa dovrebbe fare, quindi, AI? Limitarsi alla difesa dei diritti politici, fiduciosa che l'affermazione di questi permetta ad individui e popoli di conquistare altri diritti di cui sentono il bisogno, proprio come suggerisce Ignatieff? Oppure dovrebbe lanciarsi nella corsa ad aumentare l'elenco dei diritti umani, rischiando di lasciare il mondo reale troppo indietro, di creare false speranze, di apparire come una organizzazione di parte, ideologicamente motivata?
O forse si può pensare che la difesa dei diritti umani già acquisiti e il loro ampliamento possano essere perseguiti più efficacemente attraverso organizzazioni differenti per organico, statuto, struttura, strumenti, modalità operative e, ovviamente, fini sociali?
La replica di AI è affidata ad un comunicato stampa denso di contenuti, alcuni dei quali meritano un'attenta riflessione, sullo sfondo, magari, delle tesi sostenute da Ignatieff nella sua apologia dei diritti umani. In sintesi AI spiega:
a) di non voler promuovere il diritto all'aborto in quanto tale,
b) che in alcuni casi l'aborto è necessario per permettere alla donna di poter godere della pienezza dei suoi diritti sociali e alla salute.
Il comunicato è interessante perchè evidenzia come il godimento di diritti di terza generazione (civili, ambientali o altro) possa essere una precondizione per il godimento dei diritti di seconda e prima generazione (sociali e politici), esattamente come i diritti sociali vennero promossi come precondizione per un effettivo godimento di quelli politici.
AI ingaggia così una nuova battaglia per l'ampliamento dello spettro dei diritti, oltre a quella per i diritti già riconosciuti. Di più, sostiene che queste due battaglie sono inestricabilmente legate. Questa posizione è perfettamente comprensibile, comporta però alcune difficoltà.
Il più grande capitale nelle mani di AI è il riconoscimento internazionale ottenuto grazie ad una imparziale ed inflessibile difesa dei diritti umani riconosciuti dalla principali convenzioni internazionali. Il tentativo di estendere il campo di battaglia, specialmente sulla questione molto delicata e dibattuta dell'aborto, rischia di screditare AI come strumento di imperialismo culturale occidentale soprattutto di fronte a quelle popolazioni in cui la difesa dei diritti umani è più urgente. In altre parole, l'allargamento dei diritti rischia di rendere meno efficacie la difesa dei diritti già esistenti: quanto più AI si presenta come soggetto politico, tanto meno forte sarà la sua legittimazione.
AI ha considerato questo rischio? Se sì perchè lo ha considerato non rilevante?
Una seconda serie di perplessità nasce dai dubbi che la difesa dei diritti sociali e sanitari delle donne debba necessariamente passare attraverso la difesa del diritti all'aborto, anche in situazioni drammatiche come lo stupro. Se una donna, in seguito ad evento così drammatico, viene esclusa dalla sua comunità, promuovere l'aborto come diritto non è forse un darla vinta alla comunità che la esclude? Non ha forse più valore una campagna per difendere la dignità della donna anche e soprattutto quando essa è vittima, piuttosto che aggiungere violenza a violenza? Lo stesso si può dire delle cure sanitarie, che devono valere indipendentemente dal fatto che la donna porti in grembo un figlio concepito con la violenza. Insomma, l'aborto non annulla lo stupro ed è difficile capire come un aborto possa effettivamente restituire alla donna i propri diritti umani. La connessione tra diritto all'aborto e altri diritti mi pare molto labile, non convincente, almeno non al punto da ridurre il rischio di delegittimazione a cui accennavo prima.
Cosa dovrebbe fare, quindi, AI? Limitarsi alla difesa dei diritti politici, fiduciosa che l'affermazione di questi permetta ad individui e popoli di conquistare altri diritti di cui sentono il bisogno, proprio come suggerisce Ignatieff? Oppure dovrebbe lanciarsi nella corsa ad aumentare l'elenco dei diritti umani, rischiando di lasciare il mondo reale troppo indietro, di creare false speranze, di apparire come una organizzazione di parte, ideologicamente motivata?
O forse si può pensare che la difesa dei diritti umani già acquisiti e il loro ampliamento possano essere perseguiti più efficacemente attraverso organizzazioni differenti per organico, statuto, struttura, strumenti, modalità operative e, ovviamente, fini sociali?
sabato 8 dicembre 2007
Linguistica e leggende sudtirolesi
Nei racconti dei Turisti Italiani in Sudtirolo (TIS), che indipendentemente dalla loro collocazione politica, passato Salorno, si riscoprono improvvisamente nazionalisti, si incontra spesso un personaggio terribile, pauroso, dai contorni mitologici. Non si tratta dell'abominevole uomo delle nevi nè del fantasma di Oetzi, ma dell'Oste Tedesco che si Rifiuta di Parlare Italiano (ORPI).
Il topos letterario è il seguente: il TIS, dopo una lunga e faticosa scarpinata in Sudtirolo, entra in un'osteria/pub/ristorante/caffetteria e, prima di svenire per la sete, chiede una bevanda (caffè/birra/cocacola/succodifrutta/limonata/cioccolatadensadensa). L'ORPI, che nasconde il cappello da Schuetzen dietro il bancone, fa lo gnorri, scuote la testa, urla qualche parola in una lingua incomprensibile che dovrebbe essere il tedesco e caccia fuori dal negozio il turista assetato (che verrà poi salvato da un Karabiniere). Naturalmente il TIS è scandalizzato prima dal fatto che l'ORPI non gli parli in italiano (preferibilmente con cadenza fiorentina) (siamo in Italia dopotutto!) e poi dall'inospitalità dell'ORPI (con tutti i soldi che gli mandiamo da Roma! Ingrati!) e si premura di raccontare l'accaduto a tutti gli Italiani Sudtirolesi (IS) che incontrerà nel futuro prossimo e lontano.
L'IS questo leggendario figuro non lo ha mai incontrato, perchè se lo incontrasse la storia finirebbe in modo diverso: L'IS, innanzitutto, è abbastanza sgamato per portarsi sufficienti scorte di liquidi prima di andare a scarpinare e quindi non si trova mai a rischio di morire di sete. Se però decide di farsi un radler al Zum Pfau e si trovasse di fronte un ORPI gongolerebbe assai, sfoggerebbe un sorriso a 24 carati da cui farebbe uscire le 4 parole in croce che ha imparato a scuola (Eine Bier bitte. Wie kostet?) e che per la prima volta in vita sua può usare. E uscirebbe dalla stamberga con l'autostima alle stelle (finalmente qualcuno che parla l'Altra Lingua peggio di me!).
Sta di fatto che quando l'IS fa a farsi un radler, perfino l'ultimo oste dell'ultimo rifugio della val Ridanna e prova a far uso del suo tanto sudato tedesco (questo mauco qui l'italiano non lo parla sicuro!), si ritrova davanti non un ORPI, ma un Oste Perfettamente Poliglotta (OPP), che infatti parla correntemente italiano (con gli italiani), tedesco (con i tedeschi) e sudtirolese (con tutti gli altri), e che appena l'IS apre bocca lo stoppa con un'occhiata ebete (ma che dice sto qua?), poi pensa agli schei e ribatte con un italiano manieroso (l'accento sudtirolese à la sturmtruppen è solo una cortesia per evitare di umiliare eccessivamente l'IS).
Da queste due narrazioni contrastanti emerge un personaggio mostruoso e malvagio, fusione di ORPI e OPP, che astuto, abile e viscido come un savio di Zion dal naso aquilino, si diverte a fare l'ORPI con i TIS e l'OPP con gli IS, al solo scopo di rendere il Sudtirolo la terra più inospitabile possibile per i nipotini di Mussolini.
Ma per fortuna l'illuminismo votato alla linguistica ha fatto breccia perfino tra le nostre aspre montagne, nella forma di una tesi di laurea. Il lavoro di Martina Zambelli, via SpaghettimitKnoedel, è non solo godibile anche per Non Sudtirolesi (NS), ma utilissimo a rimuovere pregiudizi, preconcetti e mitizzazioni del Nemico che tanta parte hanno nel rendere difficile la convivenza in Sudtirolo.
Leggetelo.
Il topos letterario è il seguente: il TIS, dopo una lunga e faticosa scarpinata in Sudtirolo, entra in un'osteria/pub/ristorante/caffetteria e, prima di svenire per la sete, chiede una bevanda (caffè/birra/cocacola/succodifrutta/limonata/cioccolatadensadensa). L'ORPI, che nasconde il cappello da Schuetzen dietro il bancone, fa lo gnorri, scuote la testa, urla qualche parola in una lingua incomprensibile che dovrebbe essere il tedesco e caccia fuori dal negozio il turista assetato (che verrà poi salvato da un Karabiniere). Naturalmente il TIS è scandalizzato prima dal fatto che l'ORPI non gli parli in italiano (preferibilmente con cadenza fiorentina) (siamo in Italia dopotutto!) e poi dall'inospitalità dell'ORPI (con tutti i soldi che gli mandiamo da Roma! Ingrati!) e si premura di raccontare l'accaduto a tutti gli Italiani Sudtirolesi (IS) che incontrerà nel futuro prossimo e lontano.
L'IS questo leggendario figuro non lo ha mai incontrato, perchè se lo incontrasse la storia finirebbe in modo diverso: L'IS, innanzitutto, è abbastanza sgamato per portarsi sufficienti scorte di liquidi prima di andare a scarpinare e quindi non si trova mai a rischio di morire di sete. Se però decide di farsi un radler al Zum Pfau e si trovasse di fronte un ORPI gongolerebbe assai, sfoggerebbe un sorriso a 24 carati da cui farebbe uscire le 4 parole in croce che ha imparato a scuola (Eine Bier bitte. Wie kostet?) e che per la prima volta in vita sua può usare. E uscirebbe dalla stamberga con l'autostima alle stelle (finalmente qualcuno che parla l'Altra Lingua peggio di me!).
Sta di fatto che quando l'IS fa a farsi un radler, perfino l'ultimo oste dell'ultimo rifugio della val Ridanna e prova a far uso del suo tanto sudato tedesco (questo mauco qui l'italiano non lo parla sicuro!), si ritrova davanti non un ORPI, ma un Oste Perfettamente Poliglotta (OPP), che infatti parla correntemente italiano (con gli italiani), tedesco (con i tedeschi) e sudtirolese (con tutti gli altri), e che appena l'IS apre bocca lo stoppa con un'occhiata ebete (ma che dice sto qua?), poi pensa agli schei e ribatte con un italiano manieroso (l'accento sudtirolese à la sturmtruppen è solo una cortesia per evitare di umiliare eccessivamente l'IS).
Da queste due narrazioni contrastanti emerge un personaggio mostruoso e malvagio, fusione di ORPI e OPP, che astuto, abile e viscido come un savio di Zion dal naso aquilino, si diverte a fare l'ORPI con i TIS e l'OPP con gli IS, al solo scopo di rendere il Sudtirolo la terra più inospitabile possibile per i nipotini di Mussolini.
Ma per fortuna l'illuminismo votato alla linguistica ha fatto breccia perfino tra le nostre aspre montagne, nella forma di una tesi di laurea. Il lavoro di Martina Zambelli, via SpaghettimitKnoedel, è non solo godibile anche per Non Sudtirolesi (NS), ma utilissimo a rimuovere pregiudizi, preconcetti e mitizzazioni del Nemico che tanta parte hanno nel rendere difficile la convivenza in Sudtirolo.
Leggetelo.
mercoledì 5 dicembre 2007
domenica 2 dicembre 2007
La mia enciclica
I commenti su blog e giornali all'ultima enciclica di Benedetto XVI mi hanno lasciato piuttosto sconcertato. Dalla loro lettura pare che il Papa si sia lanciato contro chissà quale crociata politica e filosofica: la modernità, l'illuminismo, la laicità, il comunismo, la scienza, il Vaticano II e chi più ne ha più ne metta.
A me pareva di avere letto tutta un'altra cosa. Spe salvi per me è stata una lettura avvincente, piena di riferimenti affascinanti e di intrigante capacità introspettiva, ma il succo dell'enciclica non mi ha stupito affatto. In fin dei conti, non si tratta altro che di una elegante elaborazione di ciò che ha già detto Cristo: io sono la Vita, e di una moderna ripetizione di ciò che già disse Pietro: tu solo hai parole di vita eterna. Il Papa ha raccontato cose che so benissimo da me, ovvie, quotidiane, e però molto intime. Nella Spe salvi sono raccontate le ragioni della mia fede, ne è descritto il seme posto nella mia anima.
In molti mi hanno chiesto le ragioni della mia fede. Ora potrei invitare alla lettura dell'enciclica, se non avessi il timore che non viverla, questa fede, renda la Spe salvi completamente incomprensibile. Ma è davvero così incomprensibile che la richiesta esistenziale di senso vada irrimediabilmente oltre la scienza o un'utopia politica? E' davvero così incomprensibile questo sentirsi inappagati a fronte di ciò che il mondo ci offre? Ma non avete anche voi sete di acqua viva, che disseta eternamente?
Inconcepibile, per lo meno agli occhi del mondo, è però anche la Via che ci indica Cristo. L'affidarsi come bambini a lui (questa è la fede, questa è la speranza), basta questo per fare esperienza della vita eterna, del Regno di Dio (evidentemente non si tratta di un regno politico) ed è questa esperienza che si trasforma in certezza (anche se su questo punto ci sarebbe molto da meditare).
La speranza diventa così l'opposto dell'orgoglio: diventa un fare spazio a Dio. E l'unico modo per farlo è un privarsi dell'io, ma non buttandolo via, piuttosto donandolo. Ed ecco perchè questa fede non è una speranza privata, ma un qualcosa che coinvolge se non proprio tutti, per lo meno chi mi sta vicino.
A margine alcune note. La prima di vanitosa soddisfazione per l'apprezzamento espresso da Benedetto nei confronti dall'analisi sociale marxista. La seconda è un sospetto. Sia il riferimento iniziale alla fede fonte di salvezza, come l'ultimo riguardo al Purgatorio, non sono forse dei tentativi di avvicinamento verso la teologia protestante e ortodossa? E i riferimenti a Marx sono una mano gettata verso la teologia della liberazione (la seconda, dopo i discorsi brasiliani)? Forse il papato di Benedetto è incentrato su un gigantesco sforzo ecumenico: tentare l'unità dei Cristiani, dai Lefevriani ai protestani, passando per i teologi della liberazione.
Per divertissiments teologici e filosofici sull'enciclica, l'indirizzo è azione parallela.
A me pareva di avere letto tutta un'altra cosa. Spe salvi per me è stata una lettura avvincente, piena di riferimenti affascinanti e di intrigante capacità introspettiva, ma il succo dell'enciclica non mi ha stupito affatto. In fin dei conti, non si tratta altro che di una elegante elaborazione di ciò che ha già detto Cristo: io sono la Vita, e di una moderna ripetizione di ciò che già disse Pietro: tu solo hai parole di vita eterna. Il Papa ha raccontato cose che so benissimo da me, ovvie, quotidiane, e però molto intime. Nella Spe salvi sono raccontate le ragioni della mia fede, ne è descritto il seme posto nella mia anima.
In molti mi hanno chiesto le ragioni della mia fede. Ora potrei invitare alla lettura dell'enciclica, se non avessi il timore che non viverla, questa fede, renda la Spe salvi completamente incomprensibile. Ma è davvero così incomprensibile che la richiesta esistenziale di senso vada irrimediabilmente oltre la scienza o un'utopia politica? E' davvero così incomprensibile questo sentirsi inappagati a fronte di ciò che il mondo ci offre? Ma non avete anche voi sete di acqua viva, che disseta eternamente?
Inconcepibile, per lo meno agli occhi del mondo, è però anche la Via che ci indica Cristo. L'affidarsi come bambini a lui (questa è la fede, questa è la speranza), basta questo per fare esperienza della vita eterna, del Regno di Dio (evidentemente non si tratta di un regno politico) ed è questa esperienza che si trasforma in certezza (anche se su questo punto ci sarebbe molto da meditare).
La speranza diventa così l'opposto dell'orgoglio: diventa un fare spazio a Dio. E l'unico modo per farlo è un privarsi dell'io, ma non buttandolo via, piuttosto donandolo. Ed ecco perchè questa fede non è una speranza privata, ma un qualcosa che coinvolge se non proprio tutti, per lo meno chi mi sta vicino.
A margine alcune note. La prima di vanitosa soddisfazione per l'apprezzamento espresso da Benedetto nei confronti dall'analisi sociale marxista. La seconda è un sospetto. Sia il riferimento iniziale alla fede fonte di salvezza, come l'ultimo riguardo al Purgatorio, non sono forse dei tentativi di avvicinamento verso la teologia protestante e ortodossa? E i riferimenti a Marx sono una mano gettata verso la teologia della liberazione (la seconda, dopo i discorsi brasiliani)? Forse il papato di Benedetto è incentrato su un gigantesco sforzo ecumenico: tentare l'unità dei Cristiani, dai Lefevriani ai protestani, passando per i teologi della liberazione.
Per divertissiments teologici e filosofici sull'enciclica, l'indirizzo è azione parallela.
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