martedì 29 gennaio 2008
Disabilità politica
2. L'estensione della responsabilità personale è potenzialmente universale. Ci sono però delle eccezioni. Si tratta dei disabili politici. A questa categoria appartengono tutte quelle persone che non sono in grado di prendere decisioni di carattere politico ed economico. Disabili politici sono sicuramente tutti coloro che soffrono di disabilità mentali o gravissime disabilità fisiche e forse anche coloro che vivono in situazioni di estrema deprivazione economica. L'aspetto caratterizzante di ogni disabile politico è la propria dipendenza da altre persone per la propria sopravvivenza. Non è raro che diverse forme di dipendenza (mentale, fisica, economica) si sovrappongano. In altri termini, i disabili politici sono coloro che non sono in grado di emanciparsi dal principio paternalistico.
3. La figura del disabile politico non è pensabile al di fuori di mercato e democrazia. Al tempo stesso ne rappresenta una contraddizione. Nel contesto di una società liberaldemocratica, l'assistenza ai disabili politici entra, per così dire, nel pallone. Attraverso stato e mercato ogni tipo di servizio (pubblico o privato) viene fornito a fronte di una capacità di far valore i propri interessi (politicamente o economicamente). Il disabile politico, per definizione, è proprio colui che è incapace di far valere questi interessi. La contraddizione risiede nel fatto che, mentre il servizio è ufficialmente diretto al disabile politico, esso in realtà è strutturato per venire incontro ad interessi differenti da quelli del disabile. Il disabile politico è, per così dire, un errore di sistema.
4. Un esempio. Prendiamo il caso del disabile mentale. Sarebbe possibile organizzare la sua assistenza attraverso il mercato? Con un sistema a voucher, per esempio? La risposta è no, perchè il disabile non è in grado di comprare l'assistenza. Ha bisogno di qualcuno che ne faccia le veci, che compri per lui e valuti per lui la soddisfazione dell'acquisto. Rimane da chiedersi se quello che il vicario privilegerà è la comodità sua (in termini di tempo libero, ad esempio) o quella del disabile. Lo stesso discorso è valido in un sistema di assistenza pubblica, dove a votare i policy makers sarà il vicario,con il forte sospetto che, siccome il voto è uno, non privilegi i propri interessi rispetto a quelli del disabile.
5. Se la disabilità politica è l'impossibilità di prescindere dal paternalismo anche in una società di democrazia e mercato, essa diventa un problema acuto nel momento in cui anche la più solida delle istituzioni paternalistiche, al famiglia, si assottiglia. E' sempre più difficile trovare vicari, persone che si sentano responsabili per il disabile. I disabili vivono più a lungo, sopravvivono ai genitori, che comunque non sarebbero in grado di tenerli in casa propria e li affidano a strutture extra-familiari. La risposta correntemente data a questo problema è ambigua. Da un lato, governo e associazioni, incoraggiano l'indipendenza e l'autonomia del disabile politico e questo significa anche recidere i legami di responsabilità che altri (la famiglia, la comunità) hanno verso di lui. Dall'altro, promuovono la creazione di figure alternative che facciano le i vicari dei vicari tradizionali, come l'advocate o famiglie affidatarie. L'advocate è, forse, la figura più interessante, perchè è terza rispetto al disabile e al fornitore (pubblico o privato) del servizio sociale. E' un persona che nel tempo libero si dedica a dare voce a chi non ha voce. Essa rappresenta l'essenza del vicario.
6. E' possibile uscire dal dilemma? Magari producendo un principio di responsabilità reciproca? O sono immaginabili solo soluzioni provvisorie, come quella dell'advocate?
lunedì 28 gennaio 2008
domenica 27 gennaio 2008
Tradurre Marx: Lavorello Porcello
1) Si fa colpo (e non solo sulle tedesche),
2) si ripassano regole di grammatica e vocabolario,
3) si capisce meglio quello che Marx vuole dirci, perchè ci si risparmia la traduzione di traduttori che o non hanno ben capito quello che leggono, o che vogliono dimostrarci di avere capito benissimo e rimpinguano la loro traduzione con concetti e idee loro, per lo più astrusi e poco fedeli al testo originario.
Un esempio è l'espressione "lavoro morto". Ma che è sto lavoro morto? Ma l'avrà mai usata Marx? E' forse un'invenzione di pensatoio? oppure di Toni Negri? Proprio non capivo... fino all'altro ieri. Stavo seduto sul divano a guardare Beetlejuice, Spiritello Porcello e mi si è accesa una lampadina.
Dopo rapida ricerca su google, ho accertato che l'espressione "lavoro morto" effettivamente si usa. In inglese si dice "dead labour". In tedesco, però, non si dice "gestorbene Arbeit", ma "vergangene Arbeit". Ora "vergangen" è un participio passato che significa passato e solo in senso piuttosto lato significa morto (il chè spiega il mio sconcerto di fronte a quella curiosa espressione funebre). Cioè, significa "morto" in un senso simile all'italiano "passato a miglior vita".
Ed in effetti, il lavoro, trasferito sotto forma di valore dal sudiciume delle fabbriche allo scintillio della City, è veramente passato a miglior vita. Ma non è morto e sepolto! Tutt'altro! E' lì, scalpitante, tutto frizzi e lazzi, che non vede l'ora di essere invocato, evocato, resuscitato, chiamato dall'aldilà all'azione da un qualche giovane broker spregiudicato a colpi di click sulla tastiera (tre, per la precisione) , proprio come uno spiritello porcello. Anzi, un lavorello porcello.
venerdì 25 gennaio 2008
Tra Prodi e l'Impero
Mastella e Berlusconi sono personaggi speculari. Sono opposti perchè il primo ci è stato catapultato da un passato feudale. Il suo partito è funzionale al mantenimento di un potere clientelare, che si nutre di raccomandazioni e distribuzioni di doni (soldi, posti di lavoro, appalti). Davvero Mastella è meglio compreso attraverso le coordinate politiche dei paesi sottosviluppati. Il secondo è tornato dal futuro. Il suo partito è una filiale della sua impresa. Promuove, assume e licenzia i quadri politici esattamente come quelli aziendali. Il partito di Berlusconi è un fattore di produzione.
Eppure sono simili: entrambi sono forme di privatizzazione del potere. Mastella non fa cadere il governo per ragioni politiche, ma per ragioni assolutamente private. Non ha nemmeno bisogno di trovare delle scuse, di mascherare le proprie motivazioni con fittizie e tormentate riflessioni politiche. Non sente il bisogno di dire che lo ha fatto per il bene del paese. No. Mastella è sfacciato e lo dice apertamente, senza vergogna: la sua sfiducia è un fatto privato, di carattere giudiziario, che riguarda la moglie. Il suo partito ubbidisce. Anche Berlusconi entra in politica per un fatto privato, di carattere giudiziario, che riguarda la sua attività imprenditoriale. E, una volta al governo, persegue costantemente i propri interessi personali. Berlusconi è una lobby che ha saltato la mediazione politica e si è fatta partito.
2. Il vuoto della politica: Ruini e Grillo; Dolly e Friedman.
E' come se la politica italiana sia rimasta incastrata tra il premoderno e il postmoderno e abbia visto svuotarsi quello che era il grande portato della modernità politica: lo spazio pubblico. Siccome la politica, come la natura, non ama i vuoti, lo spazio abbandonato dalla politica viene riempito immediatamente da surrogati dai tratti populistici. In questo senso, Ruini e Grillo sono aspetti diversi della stessa crisi.
In alterativa al populismo c'è lo scientismo: abbandonare la politica per affidarsi ad occhi chiusi al governo degli esperti, al dominio della tecnica, alla dittatura della scienza. E' la scienza, che attraverso le sue scoperte, determina ciò che sia possibile e ciò che non lo è. La politica non ha più facoltà di distinguere tra lecito e illecito. Cade ogni tabù, e presto anche quello che sembra oggi impossibile sarà realizzabile grazie al progresso tecnologico. La politica è tanto screditata da non poterle affidare decisioni di carattere morale. In modo più silenzioso, e con molto più successo, l'economia si è imposta sulla politica sotto le bandiere del monetarismo. Anche se non si è giunti a delegare la politica monetaria ad una macchina, come suggeriva Friedman, al banchiere centrale è stato affidato tutto il potere sulla moneta, senza controlli democratici e forte unicamente della sua conoscenza tecnica, il suo expertise. La politica è tanto inaffidabile che non ci si può fidare di lei per decidere degli interessi di creditori e debitori.
La politica privata è una politica debole, incapace non solo di dare delle soluzioni ai problemi della collettività, ma soprattutto di indicare una direzione, fornire un orizzonte valoriale, di offrire dei futuri comuni possibili. Ecco che si intrufolano personaggi e fenomeni non strutturati per organizzare il consenso, ma che tentano di raggrupparlo, spesso, sulle piazze. Rischiano, però, di diventare degli apprendisti stregoni: suscitano un potere che forse non riusciranno a controllare.
Una responsabilità oggettiva l'hanno gli eredi dei due grandi partiti della Prima Repubblica. Ds e Dl, ora Pd, hanno buttato ammare le loro organizzazioni territoriali, hanno inseguito la fata morgana del partito leggero e si sono dimostrati succubi della mitologia neoliberista della società civile, del mercato, delle scienze (naturali ed economiche). La Margherita ha rinunciato alla propria vocazione di massa e si è trasformata in un partito di notabili. I Ds, pur conservando le parvenze del partito di massa, hanno lasciato nel dimenticatoio quel potente strumento di formazione politica ed elaborazione culturale che era l'Istituto Gramsci. Il Pd rappresenta ora una grande occasione per ricominciare a rifondare la politica italiana. Comporta, però, anche il grande pericolo che si facciano ancora dei passi avanti verso il baratro. L'idea di un partito senza tessere, strutturato sul modello americano, non mi paiono molto incoraggianti.
3. La politica risucchiata dall'Impero: Negri e Beck.
E' però verosimile che l'Italia sia un caso particolare, e particolarmente acuto, di un fenomeno globale. Lo svuotamento della sovranità nazionale, incapace di arginare i flussi di uomini, di nuvole tossiche e di capitale finanziario e reale, rende la politica, ancora strutturata su base statuale, un'arma spuntata. La politica non è più in grado di assolvere al compito che le è stato posto. Io penso, però, che ci sia di più; che il capitalismo sia un grande frullatore in cui finiscono tutte le forme di aggregazione sociale diverse dal mercato. Il risultato è un processo di individualizzazione. Dove ci sono solo individui la società smette di esistere, e con essa la politica. Purtroppo, un sistema di produzione non è cosa facile da cambiare.
Toni Negri e Micheal Hardt danno la colpa all'Impero, e cioè quella forma di sovranità postmoderna in cui il potere è intrinsecamente biopolitico, regola cioè ogni aspetta della nostra vita, e quindi frantuma i confini tra pubblico e privato. Negri e Hardt non conoscono un antidoto, però consigliano di entrare nel cuore dell'Impero, sfruttandone le potenzialità, per poi uscirne da "un'altra parte". Anche Ullrich Beck ed Edgar Grande parlano di Impero. Nel loro caso, però, l'Impero è parte della soluzione, non del problema. Beck immagina un Impero cosmopolita ed europeo, costruito su sovranità nazionali che si ammanettano a vicenda attraverso una rete di trattati sempre più fitta per riportare ordine nel caos generato dalla globalizzazione.
Io mi auguro entrambi abbiano ragione, e cioè che sia possibile uscire dall'Impero e che ci sia un Impero che sia il meno doloroso possibile.
mercoledì 23 gennaio 2008
Training autogeno e governo Prodi
1. I problemi del paese sono strutturali, prescindono da Berlusconi, che ne è solo l'espressione più appariscente (e nemmeno quella più disgustante). Non ci sono quick fix che tengano. Altri 5 anni di Casa delle Libertà non possono poi peggiorare la situazione più di tanto. Compiti a casa: farsi crescere una pelliccia sulla stomaco.
2. Tanto vale cogliere la palla al balzo e sfruttare una legislatura di opposizione per costruire un partito vero, pimpante, coeso e possibilmente vincente. Non sono più necessari compromessi al ribasso con la Binetti, che da dopodomani potrà finalmente venire espulsa, nè corteggiare dei vescovi che ai favori rispondono con i calci negli stinchi. Lo stesso vale per una lunga categoria di corporazioni. Compiti a casa: mandare a memoria Teorema di Ferradini ed esercitarsi nel metterlo in pratica con i propri partner.
3. Siccome abbiamo già detto che i nostri guai sono strutturali (tessuto industriale, credibilità della politica etc etc) , bisognerebbe anche sfruttare i governi regionali (così vicini ai cittadini!) per far da levatrice ad una borghesia seria e ad un capitalismo un po' meno straccione. Naturalmente il pd federale sarà adattissimo allo scopo. Compiti a casa: Conquistare il Veneto.
Ci sentiamo un pochino meglio?
lunedì 21 gennaio 2008
Lettera al cardinal Ruini
Caro cardinale Ruini,
le scrivo da cristiano ordinario che ha seguito le recenti vicende della mancata visita del Papa alla Sapienza e che si interessa al rapporto tra la fede cristiana e la società di oggi.
Devo dire che la riflessione più serena, ragionata e convincente che ho letto è quella di Claudio Magris, pubblicata ieri dal Corriere della Sera. Mi scuserà se prendo a prestito le parole di un altro, ma se sanno esprimere meglio di me quanto penso, tanto di guadagnato
Laico non vuol dire affatto, come ignorantemente si ripete, l'opposto di credente (o di cattolico) e non indica, di per sé, né un credente né un ateo né un agnostico. Laicità non è un contenuto filosofico, bensì una forma mentis; è essenzialmente la capacità di distinguere ciò che è dimostrabile razionalmente da ciò che è invece oggetto di fede, a prescindere dall'adesione o meno a tale fede; di distinguere le sfere e gli ambiti delle diverse competenze, in primo luogo quelle della Chiesa e quelle dello Stato.
La laicità non si identifica con alcun credo, con alcuna filosofia o ideologia, ma è l'attitudine ad articolare il proprio pensiero (ateo, religioso, idealista, marxista) secondo principi logici che non possono essere condizionati, nella coerenza del loro procedere, da nessuna fede, da nessun pathos del cuore, perché in tal caso si cade in un pasticcio, sempre oscurantista. La cultura— anche cattolica — se è tale è sempre laica, così come la logica — di San Tommaso o di un pensatore ateo — non può non affidarsi a criteri di razionalità e la dimostrazione di un teorema, anche se fatta da un Santo della Chiesa, deve obbedire alle leggi della matematica e non al catechismo.
Una visione religiosa può muovere l'animo a creare una società più giusta, ma il laico sa che essa non può certo tradursi immediatamente in articoli di legge, come vogliono gli aberranti fondamentalisti di ogni specie.
Sono considerazione generali che dovrebbero essere scontate, banali, ma che non mi sembrano tali in questo momento. Così come la valutazione data da Magris dell’episodio in sé.
Anche alcuni grandi filosofi hanno insegnato all'università, proponendo la loro concezione filosofica pure a studenti di altre convinzioni; non per questo è stata loro tolta la parola.
Non è il cosa, è il come che fa la musica e anche la libertà e razionalità dell'insegnamento. Ognuno di noi, volente o nolente, anche e soprattutto quando insegna, propone una sua verità, una sua visione delle cose. Come ha scritto un genio laico quale Max Weber, tutto dipende da come presenta la sua verità: è un laico se sa farlo mettendosi in gioco, distinguendo ciò che deriva da dimostrazione o da esperienza verificabile da ciò che è invece solo illazione ancorché convincente, mettendo le carte in tavola, ossia dichiarando a priori le sue convinzioni, scientifiche e filosofiche, affinché gli altri sappiano che forse esse possono influenzare pure inconsciamente la sua ricerca, anche se egli onestamente fa di tutto per evitarlo. Mettere sul tavolo, con questo spirito, un'esperienza e una riflessione teologica può essere un grande arricchimento. Se, invece, si affermano arrogantemente verità date una volta per tutte, si è intolleranti totalitari, clericali.
Non conta se il discorso di Benedetto XVI letto alla Sapienza sia creativo e stimolante oppure rigidamente ingessato oppure — come accade in circostanze ufficiali e retoriche quali le inaugurazioni accademiche — dotto, beneducato e scialbo. So solo che — una volta deciso da chi ne aveva legittimamente la facoltà di invitarlo — un laico poteva anche preferire di andare quel giorno a spasso piuttosto che all'inaugurazione dell'anno accademico (come io ho fatto quasi sempre, ma non per contestare gli oratori), ma non di respingere il discorso prima di ascoltarlo.
Nei confronti di Benedetto XVI è scattato infatti un pregiudizio, assai poco scientifico. Si è detto che è inaccettabile l'opposizione della dottrina cattolica alle teorie di Darwin. Sto dalla parte di Darwin (le cui scoperte si pongono su un altro piano rispetto alla fede) e non di chi lo vorrebbe mettere al bando, come tentò un ministro del precedente governo, anche se la contrapposizione fra creazionismo e teoria della selezione non è più posta in termini rozzi e molte voci della Chiesa, in nome di una concezione del creazionismo più credibile e meno mitica, non sono più su quelle posizioni antidarwiniane. Ma Benedetto Croce criticò Darwin in modo molto più grossolano, rifiutando quella che gli pareva una riduzione dello studio dell'umanità alla zoologia e non essendo peraltro in grado, diversamente dalla Chiesa, di offrire una risposta alternativa alle domande sull'origine dell'uomo, pur sapendo che il Pitecantropo era diverso da suo zio filosofo Bertrando Spaventa. Anche alla matematica negava dignità di scienza, definendola «pseudoconcetto».
Se l'invitato fosse stato Benedetto Croce, grande filosofo anche se più antiscientista di Benedetto XVI, si sarebbe fatto altrettanto baccano? Perché si fischia il Papa quando nega il matrimonio degli omosessuali e non si fischiano le ambasciate di quei Paesi arabi, filo- o anti-occidentali, in cui si decapitano gli omosessuali e si lapidano le donne incinte fuori dal matrimonio?
In quella trasmissione televisiva Pannella, oltre ad aver infelicemente accostato i professori protestatari della Sapienza ai professori che rifiutarono il giuramento fascista perdendo la cattedra, il posto e lo stipendio, ha fatto una giusta osservazione, denunciando ingerenze della Chiesa e la frequente supina sudditanza da parte dello Stato e degli organi di informazione nei loro riguardi. Se questo è vero, ed in parte è certo vero, è da laici adoperarsi per combattere quest'ingerenza, per dare alle altre confessioni religiose il pieno diritto all'espressione, per respingere ogni invadenza clericale, insomma per dare a Cesare quel che è di Cesare e a Dio quel che è di Dio, principio laico che, come è noto, è proclamato nel Vangelo.
Ma questa doverosa battaglia per la laicità dello Stato non autorizza l'intolleranza in altra sede, come è accaduto alla Sapienza; se il mio vicino fa schiamazzi notturni, posso denunciarlo, ma non ammaccargli per rivalsa l'automobile.
Fin qui Claudio Magris. A questo punto vorrei rivolgerLe alcune domande.
Lei è sicuramente un grande protagonista della scena pubblica. L’Angelus di solidarietà al Papa è stato il suo ennesimo successo.
Ma mi chiedo, perché la gerarchia chiede ai cittadini, ai cristiani e ai politici manifestazioni di solidarietà di questo genere – che hanno un significato politico e culturale, prima che religioso – nei confronti del Papa per un discorso non pronunciato e non fa altrettanto per i barboni che muoiono d’inverno nella Roma dei pontefici? Non valgono altrettanto, anzi non valgono di più, le morti bianche che continuano? Non valgono di più i tanti conflitti dimenticati e le tante parole negate in molti Stati del mondo? Non richiedono attestazioni di solidarietà altrettanto forti? Non si rischia così di fare del Papa, delle sue parole, il fine e non il mezzo dell’impegno della Chiesa. E il mezzo non dovrebbe essere testimoniare l’amore di Dio che accoglie tutti e vuole la salvezza di tutti.
Il Papa ha invitato giustamente i giovani all’ascolto, alla ricerca della verità. Ma quando il Papa, e la gerarchia della Chiesa, si mettono a loro volta in ascolto. La comunicazione sembra sempre unidirezionale. Ma in una società sempre più plurale, non si può fare affidamento solo sulle piazze piene. C’è sempre più bisogno di ascolto per aprire canali di comunicazione con chi è lontano. Anche con i contestatori della Sapienza. Se pure sono una piccola minoranza, non valgono l’ascolto? Per la Chiesa non dovrebbe contare solo la legge dei numeri.
Penso poi alla moratoria sull’aborto. Come cristiano e come padre non posso che essere sensibile al tema. Ma che cosa ci si propone con questa iniziativa? Mi sembra, come ho già scritto, che non si stia facendo altro che tornare a erigere antichi steccati per cercare una prova di forza. Il tema della vita non dovrebbe essere invece l’occasione per incontrare le altre posizioni e sensibilità per definire assieme, nel rispetto reciproco, un terreno comune di convivenza su questo argomento e sulle questioni della sessualità, dei diritti, della corporeità? Altrimenti continueremo a rimanere una nazione tribalizzata, in cui una fazione cerca di prevalere sulle altre.
Mi chiedo anche perché lasciare un’iniziativa del genere alla guida di Giuliano Ferrara, persona di grande intelligenza e valore. Ma questo non vuole forse anche dire che l’Italia non dispone più di voci cattoliche laiche che sappiano farsi ascoltare per la loro autorevolezza. Non vuole forse dire che la voce della gerarchia sovrasta tutte le altre? Ci vuole, per attirare l’attenzione, l’ateo devoto che si mette dalla parte della Chiesa, magari perché fa più notizia?
Domande appunto, ma forse ce n'è bisogno per migliorare il clima di oggi.
La saluto.
Io, naturalmente, sottoscrivo. E invito a diffondere.
domenica 20 gennaio 2008
Benedetto Superstar
Allora non scandalizza più che il papa abbia un tempo "d'antenna" superiore a due noiosoni come Prodi e Napolitano. Lo faccio io sul mio blog (righe dedicate a Napolitano = zero), perchè non lo dovrebbe fare Gianni Riotta sul tg1? Il papa tira, c'è poco da fare.
Comunque non preoccupatevi: questo blog è naturalmente educational. Dopo la sbandata nazional-popolare post-clericale, si ritornerà a parlare di Kenya.
sabato 19 gennaio 2008
Ridateci il Porcellum!
Il mio sconcerto cresce leggendo la bozza Bianco.Purtroppo ho tra le mani solo la prima versione (che mi è stata allungata mio informatore segreto, il misterioso gola profonda dopo averla trafugata da un cassetto dell'ufficio della presidenza della prima commissione permanente), le modifiche e le aggiunte sono costretto a dedurle dai resoconti dei giornali. Se ho capito male, per carità di Patria, correggetemi.
In breve, pare che la bozza preveda un sistema proporzionale a circoscrizione unica nazionale con liste bloccate (gulp!) e sbarramento al 5%. Il proporzionale è integrato con dei collegi uninominali. I candidati all'uninominale sono abbinati ad una lista al proporzionale e gli elettori hanno un voto solo per l'abbinamento candidato+lista. L'uninominale, pare, abbia due funzioni:
- Permettere all'elettorato un voto di preferenza: gli eletti all'uninominale non si aggiungono a quelli eletti via proporzionale, ma li sostituiscono, diventando i primi di lista.
- Salvare quei partiti locali che non superano la soglia di sbarramento: un eletto all'uninominale di un partito che non supera lo sbarramento viene eletto comunque, e i seggi rimasti vengono ripartiti con il proporzionale. Naturalmente c'è anche un articolo per garantire la rappresentanza proporzionale alla svp, che, detto tra noi, è tutto grasso che cola per i miei concittadini.
- Esempio: Fassino è in lista pd e candidato nel collegio di Torino 1. Il pd vince e ha diritto a 100 onorevoli. Pure Fassino vince e pertanto rientra tra i 100, togliendo il posto al centesimo della lista pd, che diventa il primo dei non eletti.
- Esempio: Mastella è in lista udc e candidato nel collegio di Ceppaloni. L'udc si ferma al 3%, ma Mastella vince nel suo collegio e va dritto in parlamento. I seggi da distribuire al proporzionale quindi diventano uno di meno (e magari il posto lo perde il novantanovesimo della lista pd).
Insomma, le cose che non capisco sono tante e mi viene il dubbio che la bozza Bianco sia stata riempita di accorgimenti cosmetici per ritornare a 20 anni fa senza dare troppo nell'occhio. O forse è perchè i senatori hanno deciso di boicottare le riforme costituzionali (ognuno tiene famiglia, non solo Mastella) e allora il Porcellum non va più bene e questo è l'unico compromesso possibile. Ma sono solo dubbi.
giovedì 17 gennaio 2008
Nairobi, sviluppi inattesi
2. Bisognava eleggere il presidente del parlamento, dove il governo è in minoranza, ma contava di riuscire a comprare un numero sufficiente di parlamentari per superare quota 50%. A dispetto di ogni previsione, mie comprese, l'opposizione è disciplinata e compatta: tiene e vince per un pugno di voti. Ma vince. E' una notizia clamorosa e inaspettata. Per valutarne la vera portata bisogna aspettare ancora un po'. Intanto teniamola a mente.
3. Questo risultato ha ridato vigore alla protesta, e purtroppo anche la polizia si è fatta prendere la mano. Si alza il livello dello scontro? O si alza solo il prezzo degli onorevoli pronti a fare il salto della quaglia? Intanto il governo non si mostra preoccupato dalla prospettiva di non avere una maggioranza o, peggio, di dover subire un voto di sfiducia che riporterebbe il paese alle elezioni. Di fatto, nemmeno Odinga mi sembra molto convinto della realisticità di nuove elezioni e tiene sempre una porta aperta al "dialogo".
4. Sono ancora convinto che si arriverà ad un accordo e che quello a cui stiamo assistendo ora sia puro poker. La partita potrebbe essere ancora lunga. Odinga sembrava spacciato e invece è riuscito a rialzare la testa. E ricordiamoci ancora che ci è riuscito in parlamento e non sulla piazza.
5. Qualche link.
La solita completa ed eccellente analisi storico-politica della crisi di Prunier. La migliore che abbia trovato finora.
Un editoriale di politica più spicciola, ma utile per capire l'evolversi della situazione. Dallo Standard.
Un approfondimento sull'elezione del presidente del parlamento di Ryan Sheely. Utile per capire come funziona la politica, in Kenya, ma anche altrove. Con una serie di link da seguire.
Via Kenyan Pundit, un video sul funerale di Tom Mboya, il ministro degli esteri del primo governo del Kenya, morto assassinato.
Ushahidi significa testimoni. E' un sito aperto dalle blgostar kenyote in cui si possono segnalare scontri e violenze (e tenere sott'occhio).
lunedì 14 gennaio 2008
Apologia di Benedetto
Dell'altro papa non ho mai letto nulla. Mi bastava la televisione, il servizio del tg, le quattro frasi ad effetto. Benedetto invece è un papa da leggere.
Non sempre scrive (e dice) cose che condivido, ma ti costringe a confrontarti con lui. Il discorso di Ratisbona, per esempio. Centra uno dei punti fondamentali del magistero di Ratzinger, il rapporto tra fede e ragione. Il papa insiste molto sulla loro convergenza profonda. Io, che in fin dei conti credo in un Dio uno e trino; che si è fatto uomo; che, morto e sepolto, è resuscitato; di cui mangio la carne nell'eucarestia e che mi invita ad essere povero casto ed ubbidiente, faccio molta fatica e vedere questa convergenza.
Ma più spesso leggo di Benedetto pagine appassionate e appassionanti, che esprimono il cuore pulsante del cristianesimo, come le due encicliche, Deus est caritas e Spe salvi. Oppure il discorso per i Vespri Mariani a Mariazell, dove spiega la sequela di Cristo: povertà, castità e ubbidienza.
Benedetto è uno con la schiena dritta. Bastona dove c'è da bastonare, a destra e a sinistra, senza guardare in faccia a nessuno, e recuperando, invece, quello che, teologicamente e pastoralmente, va salvato. Così è per la teologia della liberazione: il Sant'Uffizio ha ripreso Jon Sobrino (teologo della liberazione) per aver relativizzato il ruolo salvifico della Chiesa, allo stesso tempo Benedetto ha ripreso temi cari alla teologia della liberazione (le strutture che creano ingiustizia) nel suo discorso per la conferenza episcopale sudamericana. Quasi inosservato, ma altrettanto significativo della personalità del pontefice, è il richiamo al movimento neocatecumenale riguardo alle modalità di celebrazione dell'eucarestia.
Si è dimostrato molto più distante dall'Opus dei di quanto non lo fosse Giovanni Paolo. Per cominciare ha sostituito Navarro Vals con un gesuita (e chi si intende un poco di politica ecclesiale saprà della grande rivalità tra Opus e Società di Gesù). Poi, scorrendo la pur molto discutibile lista del presunto organigramma dell'Opus in Italia che circola in rete, si noterà che nessuno dei prelati sospettati di essere vicini all'organizzazione di Escrivà è rimasto al suo posto. Ormai l'Opus ha più agganci al governo che in Vaticano.
Un altro aspetto cruciale del pontificato di Benedetto è lo sforzo per l'unità dei cristiani. Uno sforzo che va in tutte le direzione e sembra stia portando qualche frutto, specialmente in relazione ai lefevriani e agli ortodossi. Esso può sembrare in contraddizione con l'accento posto sulla razionalità della fede e il rigetto di ogni forma di relativismo. In questa contraddizione apparente credo si annidi il malinteso (?) con molti suoi osservatori e critici. Il vero dialogo per Benedetto parte dalla ricerca della verità e dall'onesta ammissione delle proprie convinzioni. Che dialogo e che confronto sono possibili se si parte dal presupposto che tutte le opinioni sono egualmente vere? Non sarebbe vero dialogo, ma un semplice parlarsi affianco.
Di questo dialogo vero, mi sembra, molti hanno paura in Italia. Saltano sulla sedia spaventati e in difesa ad ogni espressione di "pensiero forte" da parte di Benedetto. Manca, così almeno mi pare, il coraggio e l'orgoglio per le proprie convinzioni, che permetterebbero un confronto a viso aperto con le affermazioni del papa. Molto spesso si preferisce invece rifugiarsi in accuse di illiberalismo e intolleranza che lasciano il tempo che trovano, oltre a distorcere il senso di molte delle dichiarazioni del Papa.
Anche politicamente la situazione non è molto diversa, si strilla di paura appena Ferrara fa buh!, si rifiuta il confronto, si sta sulla difensiva senza la capacità di proporre una visione alternativa e concorrente. Si lamenta lo strapotere clericale, dimenticando che ormai in chiesa non ci va quasi più nessuno.
Perchè, piuttosto, non accettare il guanto di sfida lanciato da Benedetto? Paura di perdere?
sabato 12 gennaio 2008
Primarie aborto noprofit, 12-01-08
Intanto impazza la polemica sull'aborto. Per pigrizia intellettuale avrei preferito non occuparmene mai seriamente, comunque nel dibattito spuntano, a volte, riflessioni interessanti e fruttuose. Sempre su benecomune ne è stata pubblicata una, di Alberto Gambino, che mi ha colpito molto. Gambino ragiona sui legami etico-giuridici tra legge 194 e legge 40. Si insiste molto sul diritto alla vita del feto contrapposto a quello della madre di decidere della propria vita. In questo modo si reifica il feto, come se fosse pensabile al di fuori dell'utero della madre. Epperò:
Per quanto la legge 40 si sforzi di definirlo “soggetto giuridico”, l’embrione, una volta disgiunto dal corpo della donna, diventa un’entità quasi invisibile rinchiusa in una provetta, che finisce per essere percepita come qualcosa di diverso da un soggetto che diverrà bambino. L’aver consentito che la vita possa prodursi in provetta finisce per mettere a repentaglio la vita stessa e, dunque, una legge che legittima tale situazione non può certo definirsi “buona”.Passando invece a cose più lievi, le primarie americane ad esempio, scopro via the Monkey Cage, un test di associazioni implicite. A quanto pare ho una preferenza inconscia per Bill Richardson, che prima non sapevo nemmeno che esistesse. E, vista la foto sopra, come potrebbe non essere?
giovedì 10 gennaio 2008
Abolite il terzo settore:
Con la scusa dei buoni sentimenti il terzo settore serve a ridurre lo stato sociale. Cooperative, associazioni e dame della carità hanno creato un mercato per l'offerta di assistenza sociale.
Il mercato - meno costi, più efficienza - non ha, di per sè, nulla che non va. Ma il mercato del sociale è un mercato particolare. Funziona così:
1. Gli amministratori pubblici riducono la spesa sociale pubblicando bandi con criteri solo monetari.
2. Gli enti no profit offrono servizi al ribasso tagliando l'unica cosa che possono tagliare: il costo della manodopera.
3. Vengono assunti giovani sottoccupati, precari e al minimo salariale con un unico obiettivo: andarsene.
4. Con un personale non motivato ed in continuo turn-over, la qualità del servizio peggiora e chi ne porta il costo sono gli utenti, troppo vulnerabili per protestare.
Vale la pena notare che in questo modo l'amministrazione compra il servizio, ma è un altro (l'utente) ad usufruirne. All'amministrazione interessa la riduzione dei costi in bilancio, ma non il peggioramento del servizio, che viene sopportato non da essa (il cliente) ma dall'utenza. Comprando il servizio sociale, l'amministrazione pubblica può, per giunta, scaricare la responsabilità del peggioramento della qualità del servizio sull'ente no-profit (che non è mai abbastanza efficiente). A questo vantaggio se ne aggiunge un secondo. L'ente no-profit, sotto il costante ricatto degli appalti, deve rinunciare al suo ruolo di advocacy, di difesa degli interessi degli strati della popolazione più vulnerabili.
L'ente no-profit per cui lavoro e che era stato fondato per la difesa e il sostegno dei disabili e che, in passato, aveva promosso con successo i loro diritti, ora si vede costretto a promuovere, con il sorriso sulle labbra, un nettissimo taglio dei fondi a loro destinati, soprannominato ipocritamente "miglioramento della qualità". Naturalmente nessuna voce critica si alza contro il governo, anzi: applausi e via a firmare il prossimo appalto. In compenso non si risparmiano critiche al servizio sanitario nazionale: è un posto infernale dove avvengono i peggiori abusi, molto meglio chiudere baracca e subappaltare tutto... al terzo settore.
La difesa del terzo settore in nome del principio della sussidiarietà è neoliberalismo sotto mentite spoglie. La sussidiarietà vorrebbe che si rimettesse ogni compito al livello sociale più basso in cui esso può essere assolto. Il livello più basso, nel nostro caso, non è la "comunità", ma è il mercato. Gli enti no-profit non sono enti di volontariato e beneficenza, ma organizzazioni che sono no-profit solo perchè operano in un un mercato con un acquirente e tanti offerenti (il monopsonio), dove è impossibile fare profitti. Ad assolvere il compito di assistere i più deboli non ci sono volontari che agiscono per amore del prossimo, ma professionisti che lavorano per un salario. Anzi, l'amore per il prossimo è una pericolosa deviazione professionale (mai affezionarsi all'utenza! mantenere il distacco!), mentre i volontari sono, per definizione dei dilettanti.
Il processo di polverizzazione dello stato sociale è, così, in pieno corso e ci vede (quasi) tutti a battere le mani entusiasti e a fare il tifo per la Caritas. C'è un solo modo per fermarsi prima che sia troppo tardi: chiudere il terzo settore. E se qualcuno ci tiene proprio, la faccia al partito democratico.
domenica 6 gennaio 2008
Il fascino irresistibile del potere
venerdì 4 gennaio 2008
In Kenya NON è in corso un genocidio
La manifestazione annunciata dall'opposizione kenyota è stata un fiasco. La polizia ha tenuto i manifestanti sotto controllo ieri, e oggi nessuno è andato in piazza. 1-0 per il presidente Kibaki. Come reagirà Odinga, quante cartucce gli sono rimaste da sparare? Non resta che aspettare e vedere, però l'abbozzo di ottimismo a cui accennavo il 2 gennaio sta diventando qualcosa di più sostanzioso.
I protagonisti.
Kibaki è sempre stato al governo, come ministro o vicepresidente, sin dai tempi dell'indipendenza. Quando è diventato presidente, però, ha permesso lo sviluppo di uno spazio pubblico di dibattito sconosciuto in precedenza. E' vero che ci sono stati degli episodi di intimidazione verso la stampa, che però è rimasta indipendente per tutti i 5 anni della sua presidenza, e l'opposizione ha sempre potuto esprimere le loro opinioni senza timore di torture. Ha addirittura incassato con signorilità la sconfitta al referendum costituzionale. Qui come ne parla il maggiore poeta kenyota. Gli ultimi sviluppi sono così una sorpresa.
Odinga invece è il figlio di uno degli eroi dell'indipendenza. Doveva divenire il vicepresidente 5 anni fa, ma Kibaki gli ha preferito un altro. Da allora gliel'ha giurata. Ce la farà?
Le leggende.
Gli osservatori stranieri sono ossessionati dal genocidio. Sempre che questo ancestrale conflitto tribale tra Kikuyu e Luo non aspettasse altro che esplodere e che ora l'unica speranza sono i caschi blu (sic). Questo conflitto tribale è il frutto dei nostri pregiudizi sui bingobongo. Esiste una reale conflittualità nella Rift Valley, riguarda il controllo della terra e non ha nulla a che fare con i Luo. Quello che è vero è che la campagna elettorale è stata in parte giocata su temi etnici e che sia Kibaki che Odinga hanno usato la parola genocidio (per invitare a non farlo). E' anche vero che in Kenya muore un sacco di gente, tutti i giorni, in modo violento. Nella piccola baraccopoli dove ho avuto la fortuna di passare qualche mese della mia vita, c'era una vittima di mob justice al mese (prendevano un ladro, lo infilavano in dei copertoni e li davano fuoco). Ciò non ha nulla a che fare con violenza di carattere etnico. Quindi, quando vedete uno che smanazza un coltellaccio sulla schiena di qualcun'altro, ricordatevi che sono cose che in Kenya non succedono da ieri. E quando la televisione dice che sono morti in 8, ricordatevi che in realtà ne sono morti molti di più e che difficilmente queste morti hanno a che fare con differenze di tipo etnico.
Altro mito è che il Kenya fosse un'oasi di stabilità e democrazia. Ci sono sempre stati dei brogli alle elezioni, e fino a 5 anni fa il paese era sotto un regime autocratico che torturava gli oppositori. Scontri e violenze, come detto, sono sempre stati all'ordine del giorno.
La blogosfera.
La crisi kenyota è stata vissuta in diretta da tutto il mondo grazie al contributo dalla vivace blogosfera locale. Quando le tv locali sono state censurate, e quelle internazionali non sapevano quel che dicevano, i blogger kenyoti hanno reso un grande servizio a tutto il mondo. Gli ultimi interessanti contributi sono di Kumekucha, Bankelele e Thinker's Room.
mercoledì 2 gennaio 2008
Kenya: scenari politici
1. Fattori strutturali: il Kenya è un paese povero. La maggioranza dei suoi cittadini vivono in situazione di forte deprivazione economica e sanitaria. La povertà, però, attraversa orizzontalmente le differenze etniche della popolazione africana (bianchi e indiani fanno eccezione). Non esistono forme sistematiche e diffuse di discriminazione etnica o religiosa. Il portato conflittuale dei fattori strutturali è, a mio avviso, debole. Essi, però, possono essere rinforzati, e a loro volta rinforzare, fattori conflittuali generando una pericolosa spirale.
2. Acceleratori: gli elementi maggioritari della democrazia kenyota, innestati in un sistema di relazioni politiche clientelari, i livelli di violenza quotidiana e la grande disponibilità di armi sono fattori che possono contribuire a far precipitare la situazione.
a) il sistema politico: Il presidente viene eletto direttamente e contestualmente al parlamento, che ha il potere di sfiduciarlo. In caso di sfiducia, il parlamento viene sciolto e si indicono elezioni sia per la presidenza che per il parlamento. Il presidente può sciogliere il parlamento in qualunque momento. Anche in questo caso si torna alle elezioni. Il presidente ha libertà di nominare i suoi ministri e di ritirarne la nomina.
Le elezioni contestuali di presidente e parlamento generano una dinamica maggioritaria e un gioco a somma zero (si vince o si perde, non ci sono vie di mezzo), rafforzato dal fatto che il presidente può assegnare ministeri (e quindi risorse politiche ed economiche) a piacimento. Queste risorse diventano fondamentali per mantenere le proprie clientele e parte del relativo benessere dei kenyoti dipende dall'accesso del patrono a queste risorse. Questi elementi maggioritari e clientelari del sistema politico kenyota hanno sicuramente influenzato una campagna elettorale lunghissima, accentuandone i toni etno-nazionalistici (Kikuyu, la principale etnia a cui appartiene Kibaki, contro tutti gli altri).
b) il Kenya è un paese decisamente violento. Le armi, provenienti dalla Somalia, sono facilmente ottenibili. La criminalità è difficilmente contrastabile dalle forze dalla polizia, così che tragici episodi di giustizia popolare sono quotidiani. Ad essa si aggiungono scontri tribali in periferia per il controllo della terra.
3. I deceleratori: la violenza, seppure diffusa, non è organizzata. Gli scontri a cui stiamo assistendo ora sono qualitativamente (oltre che quantitativamente) differenti dal Rwanda, o dalla Bosnia, o dai progrom indiani.
a) il Kenya non ha un passato di genocidio o forte conflittualità. Gli scontri tribali in periferia sono marginali e non coinvolgono le principali etnie. La criminalità diffusa non ha mai assunto un carattere etnico.
b) Uno scontro etnico richiede anni di preparazione. E' chiaro che i politici kenyoti, pur giocano con tematiche etniche, non puntano evidentemente ad uno scontro totale: non sono imprenditori politici votati al genocidio. Dopo le elezioni non ci sono state dichiarazioni incendiarie contro una o più delle etnie, e si sono succeduti gli appelli alla calma. La stampa mantiene una posizione indipendente e non suscettibile di propaganda etnica.
4. La scintilla: domani è stata annunciata una manifestazione dell'opposizione. Il governo l'ha dichiarata illegale. Come andrà sarà cruciale per capire il proseguimento della crisi. L'elemento fondamentale è il comportamento delle forze dell'ordine, polizia ed esercito. Voci vogliono che i militari siano divisi. E' vero? Quanto profonda è la frattura? E come si comporteranno con i manifestanti? E quanti andranno alla manifestazione? Se le forze armate rimangono unite dubito che la crisi kenyota esploderà. Più probabili sono scenari di forti proteste e manifestazioni con violenze sporadiche da parte dei manifestanti. Ai livelli di violenza contribuirà, ovviamente, anche un atteggiamento più o meno tollerante da parte di polizia ed esercito. Le ultime notizie sono molto incoraggianti, con i militari che si propongono addirittura come peacemakers.
5. Le soluzioni: Si è sentito di tutto: ricontare i voti, rifare le elezioni, fare un governo di unità nazionale.
A leggere la costituzione viene spontaneo chiedersi perchè l'opposizione, che però è quasi sicuramente maggioranza in parlamento, non voti la sfiducia e faccia ripartire il processo elettorale da zero. La risposta è semplice: il presidente è in grado di cooptare un numero sufficiente di deputati dell'opposizione (in pieno stile italiano, direi). Inoltre la campagna elettorale costa e fatico ad immaginare gli eletti che rinuncino alla poltrona così facilmente. Ricontare i voti o affidarsi alla giustizia è pure un'opzione poco appetibile per l'opposizione. Se il governo è riuscito a rubare le elezioni, riuscirà pure a influenzare il ricontaggio dei voti o il verdetto della corte suprema.
Gli scenari più probabili sono, a mio avviso, i seguenti: se Odinga riesce a ottenere un alto consenso popolare visibile attraverso manifestazioni e proteste, si andrà ad un governo di unità nazionale in cui si divideranno le spoglie del potere. Le ultime dichiarazioni dei principali protagonisti sono, infatti, abbastanza concilianti.
Se non c'è una forte partecipazione popolare a dare man forte all'opposizione, Kibaki coopterà un buon numero di parlamentari e Odinga si troverà con un pugno di mosche in mano.
La comunità internazionale cosa dovrebbe fare? Questa è la domanda più facile: non giocare ai talebani della democrazia e spingere per un governo delle larghe intese, possibilmente balneare (tanto in Kenya l'estate dura tutto l'anno).
6. I link: la crisi kenyota è stata raccontata e analizzata da un sacco di blogger. Alcuni link li avevo già dati. Li ridò. Chris Blattman e Global Voices riassumono il dibattito della blogosfera segnalando gli interventi più interessanti. Io mi permetto di segnalare Kumekucha e Kenyanpundit.