lunedì 31 dicembre 2007

La fuga dal centro (per vincere le elezioni)

Il libretto di Lakoff, Non pensare all'elefante, non è solo un fondamentale breviario di comunicazione politica, zeppo di consigli utili alla sinistra politica mondiale. Infatti, contiene una interessante ipotesi sul comportamento degli elettori alternativa al modello "drogheria" (magari qualcuno lo conosce come il paradosso -chissà poi perchè paradosso- del gelataio nella efficacie versione italiana proposta dal sempre laico Odifreddi).

Il modello del "gelataio" è stato finora tanto dominante in politologia, quanto poco compreso. In soldoni, si immagina lo spazio politico-partitico come un continuum che va da destra a sinistra (una spiaggia), in cui i partiti (gelatai) si collocano per massimizzare il numero dei propri elettori (clienti). Se c'è un solo gelataio, si piazza dove vuole, tanto tutti compreranno il cornetto da lui. Poniamo che si collochi nel centrodestra della spiaggia. Ma se ne arriva un secondo? Il secondo gelataio si collocherà affianco del primo, ma dal lato sinistro, così che tutti quelli che arrivano da sinistra (anche dal fondo sinistra della spiaggia) compreranno da lui (il gelataio a loro più vicino) il loro cornetto. A questo punto si scatena una competizione tra gelatai che li porterà a collocarsi uno di fronte all'altro, equidistanti dagli estremi della spiaggia, cioè al centro.

Questa metafora è inventata da tale Downs negli anni 50 per spiegare come mai repubblicani e democratici avessero posizioni politiche sempre più simili e parte da alcuni presupposti che non sono dati necessariamente in tutti i sistemi politici.

1. Innanzitutto, non ci dice dove sia il centro della spiaggia. In Germania, ad esempio, è molto più a sinistra che in Gran Bretagna. Non ci dice nemmeno che è possibile spostarlo, il centro, come, ad esempio, riuscì alla Tatcher.

2. Ma c'è di più. Il sistema politico (non solo elettorale) deve essere maggioritario. Il sistema presidenziale USA è fortemente maggioritario (si compete per un posto solo, la Presidenza, con un turno unico) e la gara per la presidenza forma anche il panorama partitico. Risultati simili sono ottenuti dal semipresidenziale con maggioritario a doppio turno francese (dove di partiti ce ne sono tanti, ma quelli che contano sono due).

3. In Gran Bretagna il sistema elettorale è maggioritario a turno unico, ma si compete per un governo parlamentare. La corsa al centro del modello del gelataio funziona fin tanto che i liberali decidono di andare a competere da soli. Nel momento in cui decidessero di fare delle alleanza pre-elettorali con uno dei due partiti maggiori, si finirebbe come in Italia (e il perchè non lo facciano Downs non ce lo dice).

4. In Italia si competeva con un sistema parzialmente maggioritario per un governo parlamentare e le alleanze pre-elettorali, anche quella con l'ultimo dei partiti, sono indispensabili per la vittoria. E siccome ogni voto può essere decisivo, di partiti non ce n'è uno, ma tantissimi. In Italia, quindi, la potenza esplicativa del nostro modello è più limitata. Intanto se un "gelataio" si sposta al centro" ne spunta subito uno ad occupare lo spazio lasciato al centro. Si formano, però, delle coalizioni. L'arco delle posizioni incluse dalla coalizione è molto vario e decisamente non di centro. Il voto di centro è, però, quello decisivo. E', come forse direbbe qualche economista, quello al margine per massimizzare la propria utilità elettorale. E' uno solo, il voto, ma stabilisce il prezzo (cioè il programma politico). Naturalmente la cosa funziona fin tanto che i partiti all'estremità dell'arco politico decidono che è meglio stare all'opposizione che influenzare marginalmente il governo.

5. E in un sistema consociativo (spesso con legge elettorale proporzionale), come ad esempio la prima repubblica italiana o il Belgio (quando era ancora uno stato)? Grosso modo succede così: tutti votano quel che gli pare, però il governo lo si fa intorno ad un partito di centro (pivot) che unisce centrosinistra e centrodestra.

La sinistra radicale, quindi, si può mettere il cuore in pace? No, dice Lakoff: la corsa al centro è una metafora che distorce la realtà, o, al massimo, una profezia che si autoavvera. E ci propone un modello alternativo:

1. Non esiste un continuum da destra a sinistra, piuttosto ci sono due insiemi che si intersecano sovrapponendosi parzialmente. L'insieme di destra è quello di coloro che fanno riferimento ai valori e all'idea di famiglia (e una nazione è una grande famiglia) del "padre severo", che educa i figli a bastonate (gli stati canaglia con le bombe, i disoccupati tagliando l'assistenza sociale). A sinistra si fa riferimento ai valori e alla famiglia del "genitore premuroso" (con aiuti allo sviluppo e programmi di welfare).

2. Una parte, più o meno consistente, dell'elettorato fa riferimento, a seconda dei casi, a uno dei due modelli (a casa severo, al lavoro premuroso; severo in economia, premuroso in politica estera). La sfida politica è quella di risvegliare i propri valori (severità o premurosità) in coloro che si possono riconoscere in entrambi. La corsa al centro rischia di essere un esercizio masochistico, perchè è un modo per propagandare valori che l'altra parte politica rappresenta con maggiore credibilità. Quello che i politici devono fare è mostrare come i loro valori siano gli stessi dell'elettorato di centro (o meglio "intersecante"). Non devono assolutamente "diventare di centro", diventare "intersecanti", creando confusione e generando astensionismo.

3. Il modello suggerito da Lakoff ha il grande merito di evitarci l'arrampicata sugli specchi per spiegare la vittoria dei "moderati" Bush e Berlusconi (ma anche della Tatcher o Sarkozy). Rimane lo schema rigidamente bipolare (destra-sinistra), ma riesce ad includere anche il multipartitismo (basato su differenti applicazioni pratiche degli stessi valori e su possibili mix di intersezioni).

Coraggio, compagni duripuristi, forse una speranza -elettorale- c'è anche per voi!

ps. buon anno a tutti.
pps. in Kenya i capi dell'opposizione sono ancora a piede libero e le televisioni, pare, hanno ripreso a trasmettere politica.

domenica 30 dicembre 2007

Kenya in Caos

I fatti:
  • Mwai Kibaki, presidente in carica del Kenya, e' stato proclamato vincitore delle elezioni che si sono sostenute venerdi' scorso. Oggi ha prestato giuramento.
  • La differenza tra lui e l'altro principale candidato, Raila Odinga, al computo finale, e' di 230.00 voti.Ci sono molti dubbi sulla regolarita' delle votazioni. Il risultato e' stato annunciato con notevole ritardo. Gli osservatori internazionali hanno confermato che sono avvenuti dei brogli.
  • L'opposizione non ha riconosciuto la sconfitta e ha annunciato una cerimonia di giuramento alternativa nel parco principale di Nairobi.
  • Scontri e violenze vengono registrate in tutto il paese.
  • Il governo ha proibito ogni trasmissione televisiva.
  • Voci non confermate vogliono Odinga sotto arresto o rifugiato nell'ambasciata americana.

Chris Blattman sta aggiornato il suo blog "live" sulla situazione, segnalando i post della blogosfera kenyota e messaggi che gli arrivano da amici in Kenya. Seguite i link che vi segnala lui, se volete approfondire.

La stampa kenyota non e' cosi' aggiornata, comunque qui i link ai due principali quotidiani: Daily Nation e the Standard.

Questo e' un post che non avrei mai voluto scrivere. A sangue freddo provero' a buttare giu' qualche analisi.

venerdì 28 dicembre 2007

Metodo Ciampi dove lavoro io

Indipendentemente dalla loro presunta età mentale, le donne dove lavoro io hanno un'idea molto vaga di bilancio, sono antropologicamente estranee al concetto di bilancio in pareggio e ignorano convintamente i vincoli di bilancio, la differenza tra liquidità e disponibilità effettiva ed ogni cosa che abbia a che fare con la sostenibilità finanziaria.

Nei fatti, adottano principi di spesa opposti a quelli della sostenibilità, che diventano una mera, trascurabile variabile dipendente. La loro regola d'ora è: primo spendere. Risparmiare (= posticipare una spesa) un esercizio inutile, visto che si spende sempre e comunque, indipendentemente dal grado di voluttuarietà di una merce. E quando si finisce in bancarotta? Si fanno spallucce, tanto i soldi non erano loro.

E' possibile che questo sia un approccio di genere (femminile) alla finanza. Ma è più probabile che sia non sia altro che la logica della Cool Britannia fatta propria dalle signore di dove lavoro io. Un comico tedesco, di stanza a Londra, sottolineava come, nel momento in cui gli interessi della carta di credito superano il suo reddito, un inglese non si mette le mani nei capelli, ma va in banca ad aprire una seconda carta di credito. Un vecchio ministro delle finanze tatcheriano, in televisione, dopo aver fatto tutti i complimenti possibili a Gordon Brown, notava come la straordinaria crescita economica britannica poggiava su un mare di debito privato. E si augurava un approdo indolore alla sostenibilità.

Gli anni del Labour sembrano, da questa prospettiva, una sorta di anni 80 italiani, dieci anni più tardi. Tony Blair è, in fin dei conti, un socialista riformista alla Craxi e ha avuto anche lui i suoi finanziamenti illeciti. Una differenza importante è che in Italia il debito era pubblico, mentre qui, nel Regno Unito, è privato. Quindi? Si fanno spallucce, tanto i soldi non erano loro.

In questo clima di irresponsabilità diffusa, il mio capo ha adottato un metodo infallibile: il metodo Ciampi: dichiarare che siamo sempre tutti sull'orlo del fallimento, dichiarare che abbiamo il doppio dei debiti che effettivamente abbiamo, proibire ogni spesa (anche quasi necessaria) per mancanza di fondi, centralizzare il controllo della spesa e tenere rigorosamente nascosti i dati reali sul nostro bilancio. Anche se non ce lo chiede l'Europa, ce lo chiede la Ditta, che fa sempre la sua porca figura. Il mio capo ha il mio incondizionato supporto, anche se ultimamente ha avuto qualche pericoloso cedimento. L'altro giorno, per esempio, ha detto che non è il caso di andare a fare la spesa all'hard discount.

Smidollato. Si comincia sempre così.

giovedì 27 dicembre 2007

Kilombisti: non pensate all'elefante!

Nel suo famoso saggio, Non pensare all'elefante, il cognitivista George Lakoff parla dei progressisti americana, ma è come se parlasse della sinistra bloghettara nostrana. Ecco come ci descrive:

Dal punto di vista di uno studioso delle scienze cognitive (...) esistono 6 tipi fondamentali di progressisti (...). Condividono tutti gli stessi valori, ma hanno delle differenze.
  1. I progressisti socioeconomici pensano che tutto abbia a che vedere con il denaro e con la classe sociale, e che alla fine tutte le soluzioni siano di tipo economico o di classe.
  2. I progressisti identitari sostengono che il loro gruppo è oppresso ed è ora che vengano riconosciuti i suoi diritti.
  3. Gli ambientalisti ragionano in termini di sostenibilità, sacralità della terra e di difesa delle popolazioni indigene.
  4. I difensori delle libertà civili sono decisi a difendere la libertà da qualsiasi minaccia.
  5. Gli spiritualisti hanno una forma di spiritualità premurosa, la loro esperienza spirituale è legata al rapporto con gli altri e la loro pratica spirituale consiste nel mettersi al servizio degli altri e della comunità. Possono essere cattolici. protestanti, ebrei, musulmani, buddisti, adoratori della Dea Madre o pagani della setta Wicca.
  6. Gli antiautoritari sono convinti che esistono varie forme di autorità illegittima e che dobbiamo combatterle, che si tratti delle grandi imprese o di chiunque altro.
Tutti e sei questi tipi di progressisti sono esempi dell'etica del genitore premuroso. Il problema è che molte persone che condividono una di queste modalità di pensiero non si rendono conto che la loro è solo una variante di questo modello.

Poi Lakoff non ci risparmia qualche buon consiglio (che poi è anche una delle ragioni per cui abbiamo fatto Kilombo):
Ogni mercoledì, Grover Norquist riunisce un gruppo di leader di tutta le destra, circa ottanta persone. Si incontrano e discutono. in questo modo possono scoprire le differenze tra loro, cercare un accordo, e quando non lo trovano qualcuno cede (...). Tra i progressisti non succede nulla del genere, perchè ci sono troppe persone convinte che quello che fanno loro è la cosa giusta da fare. Non è un modo di procedere intelligente. E' destinato alla sconfitta.
Lakoff si dilunga molto nello spiegare che l'egemonia conservatrice non nasce dal nulla, ma da grossi investimenti fatti per 40 anni in forma di think tanks, centri di ricerca, case editrici, stampa etc etc. State pensando anche voi ai soldi di Tocque-ville e all'artigianalità low cost di Kilombo?

Bene, ora che lo avete letto e mandato a memoria, siamo pronti per andare alle elezioni.

domenica 23 dicembre 2007

Sarajevo, Sri Lanka.

Spesso e volentieri il mondo guarda se stesso con i nostri occhi, di occidentali. Quasi mai, invece, capita a noi occidentali di guardarci con gli occhi degli altri. Che pensieri ed emozioni, per esempio, generano le ultime guerre dei Balcani in un giovane indiano?

E' una giovane giornalista e consulente in materia di sviluppo, che si occupa soprattutto Sri Lanka. Benita è andata a Sarajevo per la prima volta l'inverno scorso, per un convegno sul tema del genocidio. Sperava di portare a casa qualche lezione utile per lo Sri Lanka.

Ne è uscito un articolo pubblicato da The Hindu. Eccolo.

Probabilmente non avrei scritto davvero cose tanto differenti (solo molto peggio). Forse le differenze culturali si appiattiscono di fronte a simili tragedie. I sentimenti che si provano di fronte ad esse sono comuni a tutti gli uomini, indipendentemente dalla loro latitudine.

Sono considerazioni banali, ma da tenere a mente quando ci viene la tentazione di fare i relativisti culturali: i diritti umani non sono per tutti, i diritti umani sono un valore occidentale, la democrazia è aliena alla cultura asiatica etc etc. Al tempo stesso, l'articolo di Benita è una dimostrazione di come sia efficacie la legittimazione in negativo dei diritti umani proposta da Ignatieff: i diritti umani servono ad evitare Auschwitz, Srebrenica, il Rwanda, il Nepal, lo Sri Lanka (?).

giovedì 20 dicembre 2007

Un giro intorno a Londra. Retrospettiva.

12 tappe, 224 chilometri, 8 mesi tra la prima tappa e l'ultima. Questi sono i numeri del London Orbital Outer Path, il giro intorno a Londra. Non che mi abbia regalato chissà quali panorami, d'altronde è difficile stupire chi, quando esce di casa, vede cose così. Però la lotta tra natura e civiltà che si svolge agli estremi lembi della città è appassionante, ricca di suggestioni e, in qualche modo, profetica.

Le prime tre tappe, oltre ad essere un viaggio nello spazio in direzione sud-ovest, sono state anche una esplorazione della stratificazione sociale della città: il degrado della periferia, il desiderio di pace e natura della borghesia, la memoria e la leggenda dell'aristocrazia. Poi si raggiunge il punto più meridionale di Londra, si sale sulla collina di Addington e la città ci offre il suo didietro, da sud verso nord.

Intanto imparo che ad ogni buon camminatore servono un buon paio di scarponi (in Inghilterra soprattutto per proteggersi dal fango), una buona giacca a vento (un cartellone pubblicitario, con un fondo di verità, ricordava che non esistono tempi atmosferici brutti, ma solo abbigliamento inadeguato), una bussola (chè non è come da noi che si va o in alto o in basso) e una guida. Più avanti imparerò che anche Google Maps può essere utile.

La risalita verso settentrione è forse la parte più idilliaca del Loop, o forse è la stagione, incomincia a farsi primavera, che rende tutta la mia camminata più piacevole. Emerge, come un fiume carsico, pure la storia, da Enrico VIII alla battaglia d'Inghilterra. La quinta tappa è decisamente la mia preferita.

Nello zaino ci vanno da bere (thè, un litro è sufficiente), da mangiare (uno o due panini, frutta secca, frutta fresca - le barre cereali no, perchè mi fanno sete), un ricambio (calzini - molto ma molto importanti, maglietta, maglia pesante). Questo basta e avanza.

Dopo di chè si raggiunge il Tamigi, e saranno fiumi e canali ad accompagnarmi per un bel po'. Ho potuto apprezzarne il contributo all'economia, anche da un punto di vista prettamente sonoro. L'odore dolciastro d'acqua dolce m'è entrato nelle ossa e, ad un certo punto, non ne potevo proprio più. Intanto si fa estate, e con più luce a disposizione, cammino anche di più. Mi metto a fantasticare della guerra. Mangio i primi frutti. Mi bevo un radler per celebrare la fine del giro, dalla sponda opposta di dove ero partito 8 mesi prima, che faceva freddo e piovigginava.

Alla fine del giro posso indicare con certezza quali sono i nemici del viandante:
  • gli autisti e, si badi bene, non le macchine, chè se non ci fosse nessuno a guidarle se ne starebbero nei garage e non a sgommare su tutte le strisce d'asfalto che attraversano l'isola, ricordandoti che non sei mai, ma proprio mai veramente solo; e che l'aria non è mai, ma proprio mai, veramente pulita. Mortali.
  • i giocatori di golf e, si badi bene, non i campi da golf, che senza cinquantenni panzuti e sfaccendati che tirano in giro, praticamente a caso, palline bianche bastanti a stendere ogni avventato passante, sarebbero adattissimi a fare picnic. Pericolosi.
  • i cavalli e, si badi bene, non i fantini, che se andassero a piedi non rovinerebbero i sentieri rendendoli delle paludi attraversabili solo con estremo sprezzo del pericolo e dello sporco (qualità che, tra l'altro, ho). Maleducati.
  • i ciclisti, che ti sfrecciano a lato e facendoti il pelo alle spalle, sempre e comunque in discesa. In tutte le mie camminate non ne ho mai visto uno farsi un po' di seria pendenza. Rimane un mistero come riescano a raggiungere la cima da cui si gettano a tutto pedale. Probabilmente in macchina. Ridicoli.
Per chi mi ritenesse il mio racconto del giro inaffidabile., ecco il resoconto di un altro - un mito - che si è sciroppato il Loop e ne ha scritto su internet. L'ho letto tappa per tappa, dopo che l'avevo fatta io. E posso confermare che abbiamo davvero fatto lo stesso giro (e letto la stessa guida).

sabato 15 dicembre 2007

Disabili liberi

Una delle parole d'ordine della mia ditta è "choice", scelta. Il mio lavoro consisterebbe, infatti, nel permettere ai miei clienti (cioè i disabili) di fare il numero più alto possibile di scelte indipendenti. L'idea mi piace molto, fa tanto Amartya Sen ed pare pure molto sensata. Solitamente, "l'abile" è svelto a decidere al posto del disabile, abusando così del proprio presunto vantaggio intellettivo: il tipo di sandwich, il gusto delle patatine, quanti soldi spendere e come e dove andare e come: alla fine è sempre l'educatore che sceglie, se non altro perchè si fa prima che a chiedere e comunque l'educatore sa sempre sempre cosa è meglio fare. L'educatore è un po' come Dio.

Ma, dicevo appunto, noi siamo diversi e promuoviamo la libertà di scelta del disabile. Poi, però, affianco alla parola d'ordine "choice", ne affianchiamo un'altra, "duty of care", l'obbligo di cura. E' una parola d'ordine bastarda perchè si può allargare all'infinito. Si parte dal comprensibile fatto che se un disabile vuole buttarsi dalla finestra è mio compito tentare di impedirglielo (se non altro perchè dopo nei casini ci finisco io). Si arriva però fino alla scelta delle scarpe da tennis, che devono essere appropriate all'età e al genere. Le scarpe rosa di sailor moon il disabile, maschio trentenne, se le può tranquillamente scordare. E pure i soldi bisogna saperli maneggiare e non si può spendere un salario in taxi. Il disabile, certo, è incoraggiato a fare tutte le scelte del mondo, baste che queste siano socialmente rispettabili e ragionevoli. Il disabile, in altre parole, non può sbagliare ed è il dovere di cura dell'educatore impedirglielo. E l'educatore ritorna Dio.

Anzi, più di Dio, perchè Dio, alla fin fine, ci lascia tutta la choice che ci pare, anche di buttarmi giù dalla finestra e persino di prendere a bazookate il mio vicino di casa. Ci ha lasciati liberi di andare contro le norme sociali, di sbagliare e di continuare a farlo. Ma, ovviamente, noi, per fortuna, non siamo mica disabili.

domenica 9 dicembre 2007

Amnesty International e il diritto all'aborto

A giugno il Cardinal Martino rilasciò un'intervista ad un giornale americano invitando i cattolici a ritirare il proprio sostegno ad Amnesty International per via della campagna di AI a favore del diritto di aborto in caso di stupro.

La replica di AI è affidata ad un comunicato stampa denso di contenuti, alcuni dei quali meritano un'attenta riflessione, sullo sfondo, magari, delle tesi sostenute da Ignatieff nella sua apologia dei diritti umani. In sintesi AI spiega:
a) di non voler promuovere il diritto all'aborto in quanto tale,
b) che in alcuni casi l'aborto è necessario per permettere alla donna di poter godere della pienezza dei suoi diritti sociali e alla salute.

Il comunicato è interessante perchè evidenzia come il godimento di diritti di terza generazione (civili, ambientali o altro) possa essere una precondizione per il godimento dei diritti di seconda e prima generazione (sociali e politici), esattamente come i diritti sociali vennero promossi come precondizione per un effettivo godimento di quelli politici.

AI ingaggia così una nuova battaglia per l'ampliamento dello spettro dei diritti, oltre a quella per i diritti già riconosciuti. Di più, sostiene che queste due battaglie sono inestricabilmente legate. Questa posizione è perfettamente comprensibile, comporta però alcune difficoltà.

Il più grande capitale nelle mani di AI è il riconoscimento internazionale ottenuto grazie ad una imparziale ed inflessibile difesa dei diritti umani riconosciuti dalla principali convenzioni internazionali. Il tentativo di estendere il campo di battaglia, specialmente sulla questione molto delicata e dibattuta dell'aborto, rischia di screditare AI come strumento di imperialismo culturale occidentale soprattutto di fronte a quelle popolazioni in cui la difesa dei diritti umani è più urgente. In altre parole, l'allargamento dei diritti rischia di rendere meno efficacie la difesa dei diritti già esistenti: quanto più AI si presenta come soggetto politico, tanto meno forte sarà la sua legittimazione.

AI ha considerato questo rischio? Se sì perchè lo ha considerato non rilevante?

Una seconda serie di perplessità nasce dai dubbi che la difesa dei diritti sociali e sanitari delle donne debba necessariamente passare attraverso la difesa del diritti all'aborto, anche in situazioni drammatiche come lo stupro. Se una donna, in seguito ad evento così drammatico, viene esclusa dalla sua comunità, promuovere l'aborto come diritto non è forse un darla vinta alla comunità che la esclude? Non ha forse più valore una campagna per difendere la dignità della donna anche e soprattutto quando essa è vittima, piuttosto che aggiungere violenza a violenza? Lo stesso si può dire delle cure sanitarie, che devono valere indipendentemente dal fatto che la donna porti in grembo un figlio concepito con la violenza. Insomma, l'aborto non annulla lo stupro ed è difficile capire come un aborto possa effettivamente restituire alla donna i propri diritti umani. La connessione tra diritto all'aborto e altri diritti mi pare molto labile, non convincente, almeno non al punto da ridurre il rischio di delegittimazione a cui accennavo prima.

Cosa dovrebbe fare, quindi, AI? Limitarsi alla difesa dei diritti politici, fiduciosa che l'affermazione di questi permetta ad individui e popoli di conquistare altri diritti di cui sentono il bisogno, proprio come suggerisce Ignatieff? Oppure dovrebbe lanciarsi nella corsa ad aumentare l'elenco dei diritti umani, rischiando di lasciare il mondo reale troppo indietro, di creare false speranze, di apparire come una organizzazione di parte, ideologicamente motivata?

O forse si può pensare che la difesa dei diritti umani già acquisiti e il loro ampliamento possano essere perseguiti più efficacemente attraverso organizzazioni differenti per organico, statuto, struttura, strumenti, modalità operative e, ovviamente, fini sociali?

sabato 8 dicembre 2007

Linguistica e leggende sudtirolesi

Nei racconti dei Turisti Italiani in Sudtirolo (TIS), che indipendentemente dalla loro collocazione politica, passato Salorno, si riscoprono improvvisamente nazionalisti, si incontra spesso un personaggio terribile, pauroso, dai contorni mitologici. Non si tratta dell'abominevole uomo delle nevi nè del fantasma di Oetzi, ma dell'Oste Tedesco che si Rifiuta di Parlare Italiano (ORPI).

Il topos letterario è il seguente: il TIS, dopo una lunga e faticosa scarpinata in Sudtirolo, entra in un'osteria/pub/ristorante/caffetteria e, prima di svenire per la sete, chiede una bevanda (caffè/birra/cocacola/succodifrutta/limonata/cioccolatadensadensa). L'ORPI, che nasconde il cappello da Schuetzen dietro il bancone, fa lo gnorri, scuote la testa, urla qualche parola in una lingua incomprensibile che dovrebbe essere il tedesco e caccia fuori dal negozio il turista assetato (che verrà poi salvato da un Karabiniere). Naturalmente il TIS è scandalizzato prima dal fatto che l'ORPI non gli parli in italiano (preferibilmente con cadenza fiorentina) (siamo in Italia dopotutto!) e poi dall'inospitalità dell'ORPI (con tutti i soldi che gli mandiamo da Roma! Ingrati!) e si premura di raccontare l'accaduto a tutti gli Italiani Sudtirolesi (IS) che incontrerà nel futuro prossimo e lontano.

L'IS questo leggendario figuro non lo ha mai incontrato, perchè se lo incontrasse la storia finirebbe in modo diverso: L'IS, innanzitutto, è abbastanza sgamato per portarsi sufficienti scorte di liquidi prima di andare a scarpinare e quindi non si trova mai a rischio di morire di sete. Se però decide di farsi un radler al Zum Pfau e si trovasse di fronte un ORPI gongolerebbe assai, sfoggerebbe un sorriso a 24 carati da cui farebbe uscire le 4 parole in croce che ha imparato a scuola (Eine Bier bitte. Wie kostet?) e che per la prima volta in vita sua può usare. E uscirebbe dalla stamberga con l'autostima alle stelle (finalmente qualcuno che parla l'Altra Lingua peggio di me!).

Sta di fatto che quando l'IS fa a farsi un radler, perfino l'ultimo oste dell'ultimo rifugio della val Ridanna e prova a far uso del suo tanto sudato tedesco (questo mauco qui l'italiano non lo parla sicuro!), si ritrova davanti non un ORPI, ma un Oste Perfettamente Poliglotta (OPP), che infatti parla correntemente italiano (con gli italiani), tedesco (con i tedeschi) e sudtirolese (con tutti gli altri), e che appena l'IS apre bocca lo stoppa con un'occhiata ebete (ma che dice sto qua?), poi pensa agli schei e ribatte con un italiano manieroso (l'accento sudtirolese à la sturmtruppen è solo una cortesia per evitare di umiliare eccessivamente l'IS).

Da queste due narrazioni contrastanti emerge un personaggio mostruoso e malvagio, fusione di ORPI e OPP, che astuto, abile e viscido come un savio di Zion dal naso aquilino, si diverte a fare l'ORPI con i TIS e l'OPP con gli IS, al solo scopo di rendere il Sudtirolo la terra più inospitabile possibile per i nipotini di Mussolini.

Ma per fortuna l'illuminismo votato alla linguistica ha fatto breccia perfino tra le nostre aspre montagne, nella forma di una tesi di laurea. Il lavoro di Martina Zambelli, via SpaghettimitKnoedel, è non solo godibile anche per Non Sudtirolesi (NS), ma utilissimo a rimuovere pregiudizi, preconcetti e mitizzazioni del Nemico che tanta parte hanno nel rendere difficile la convivenza in Sudtirolo.

Leggetelo.

domenica 2 dicembre 2007

La mia enciclica

I commenti su blog e giornali all'ultima enciclica di Benedetto XVI mi hanno lasciato piuttosto sconcertato. Dalla loro lettura pare che il Papa si sia lanciato contro chissà quale crociata politica e filosofica: la modernità, l'illuminismo, la laicità, il comunismo, la scienza, il Vaticano II e chi più ne ha più ne metta.

A me pareva di avere letto tutta un'altra cosa. Spe salvi per me è stata una lettura avvincente, piena di riferimenti affascinanti e di intrigante capacità introspettiva, ma il succo dell'enciclica non mi ha stupito affatto. In fin dei conti, non si tratta altro che di una elegante elaborazione di ciò che ha già detto Cristo: io sono la Vita, e di una moderna ripetizione di ciò che già disse Pietro: tu solo hai parole di vita eterna. Il Papa ha raccontato cose che so benissimo da me, ovvie, quotidiane, e però molto intime. Nella Spe salvi sono raccontate le ragioni della mia fede, ne è descritto il seme posto nella mia anima.

In molti mi hanno chiesto le ragioni della mia fede. Ora potrei invitare alla lettura dell'enciclica, se non avessi il timore che non viverla, questa fede, renda la Spe salvi completamente incomprensibile. Ma è davvero così incomprensibile che la richiesta esistenziale di senso vada irrimediabilmente oltre la scienza o un'utopia politica? E' davvero così incomprensibile questo sentirsi inappagati a fronte di ciò che il mondo ci offre? Ma non avete anche voi sete di acqua viva, che disseta eternamente?

Inconcepibile, per lo meno agli occhi del mondo, è però anche la Via che ci indica Cristo. L'affidarsi come bambini a lui (questa è la fede, questa è la speranza), basta questo per fare esperienza della vita eterna, del Regno di Dio (evidentemente non si tratta di un regno politico) ed è questa esperienza che si trasforma in certezza (anche se su questo punto ci sarebbe molto da meditare).

La speranza diventa così l'opposto dell'orgoglio: diventa un fare spazio a Dio. E l'unico modo per farlo è un privarsi dell'io, ma non buttandolo via, piuttosto donandolo. Ed ecco perchè questa fede non è una speranza privata, ma un qualcosa che coinvolge se non proprio tutti, per lo meno chi mi sta vicino.

A margine alcune note. La prima di vanitosa soddisfazione per l'apprezzamento espresso da Benedetto nei confronti dall'analisi sociale marxista. La seconda è un sospetto. Sia il riferimento iniziale alla fede fonte di salvezza, come l'ultimo riguardo al Purgatorio, non sono forse dei tentativi di avvicinamento verso la teologia protestante e ortodossa? E i riferimenti a Marx sono una mano gettata verso la teologia della liberazione (la seconda, dopo i discorsi brasiliani)? Forse il papato di Benedetto è incentrato su un gigantesco sforzo ecumenico: tentare l'unità dei Cristiani, dai Lefevriani ai protestani, passando per i teologi della liberazione.
Per divertissiments teologici e filosofici sull'enciclica, l'indirizzo è azione parallela.

venerdì 30 novembre 2007

Libri e Blog, 30-11-07

Alcune novità su questo blog. Ho aperto un account aNobii, dove racconto i miei libri. Nella colonna a destra c'è pure un badge con gli ultimi che ho catalogato.

Mastro-Don Gesualdo: un eroe tragico della modernità. Incarna la mobilità sociale, l'ambizione, il capitalismo e la sua sconfitta è la sconfitta del progresso economico nel nostro paese, per mano di una nobiltà e di una massa parassitarie.

L'Europa cosmopolita (Beck e Grande):
la globalizzazione - ce lo hanno ripetuto in tutte le salse - pone delle sfide che gli stati nazione non sono in grado di risolvere. E' un problema di asimmetria tra il potere dei governi nazionali e la portata dei problemi globali (economici, di sicurezza, ambientali). Nessuno però è riuscito a dirci, però, come vincere queste sfide. Il merito di Beck e Grande è che con questo libro almeno ci provano.

Su aNobii c'è pure un gruppo di discussione Biblioteca Democratica. Al momento partecipiamo io e il Costa, ma la cosa potrebbe pure diventare interessante con qualche membro in più.

Ho aggiunto pure qualche link:

Chris Blattman, che ci tiene aggiornati su uno dei miei temi preferiti (conflitti e sviluppo, con un'attenzione particolare all'Africa), straconsigliato sia a Brigante che a Matteo per la miriade di post sull'Uganda.

Beffa Totale, che ne vale al pena.

giovedì 29 novembre 2007

Flessibili in uscita

Ci hanno sempre venduto la flessibilità in uscita come la grande opportunità per i lavoratori del nuovo millennio: mobili, ambiziosi, intraprendenti. Qualche dubbio su questa idea l'ho sempre avuto. Intanto, per lo meno nei paesi civili, i contratti di lavoro servono a garantirti dalla schiavitù e non viceversa.

Una ulteriore illuminazione l'ho avuta l'altra sera al lavoro: ho realizzato che i flessibili in uscita non sono i colleghi che si licenziano, ma quelli che rimangono al loro posto. Ecco quello che è successo.

La collega doveva tornare dalle vacanze la settimana scorsa, ma ha fatto ponte-malattia fino al week-end seguente. Ora, con la vicecapo che si è appena licenziata (e che ha anticipato la fine del suo rapporto di lavoro con una lunga malattia per alta pressione sanguigna), il capo in vacanza alle Mauritius ad assistere il suocere moribondo, l'altra collega in vacanza non so dove, questo ponte malattia mi causava qualche problema. Mi toccava chiamarla tutti i giorni per scoprire che diceva il termometro e trovare un sostituto all'ultimo momento per coprire il turno. Siccome non c'è esattamente la coda per venire a lavorare da me (eppure agli inglesi le code piacciono così tanto) a volte mi è toccato lavorare di più a me, nella speranza che qualcuno si ricordi di pagarmi.

Insomma, lunedì alle tre di pomeriggio chiamo: "Allora domani vieni o no?" "No, anzi, a dire il vero non vengo proprio più, Anwar (il capo, ndr) non vuole che stia e non vale la pena che venga più." "In che senso?" "E... non vengo più" "Ah." Metto giù la cornetta, realizzo le conseguenze pratiche della notizia, mando una imprecazione, prendo a calci la cassaforte in corridoio, mi faccio male.

Ci sono due mesi di turni da coprire. 75 ore lavoro da coprire. Possibilmente con qualcuno che abbia una minima idea di dovi si trovi, sappia mettere un pollo nel forno e non mi perda le chiavi. L'emergenza richiederebbe la mia più completa flessibilità. Telefono sempre accesso per ogni emergenza (tipo: come si contano i soldi in cassa?), disponibilità a lavorare un paio di ore in più ogni giorno, un' ispezione attesa lunedì prossimo, giorni di vacanza, visite al museo, cinema, champions league e serate al pub in fumo. Aaaarrrrggghhhh! La flessibilità in entrata è brutta, ma quella in uscita è un vero incubo.

E' finita che chiamo il capo del mio capo e gli spiego la situazione. Lui si fa dare il numero di telefono della collega in fuga e non so cosa le dice, ma funziona (non a caso è il capo del mio capo): pericolo scampato. Ieri abbiamo avuto la riunione del team e tutti che ridevano e scherzano come niente fosse successo.

Vedi moh quando me ne vado io come li fletto io!

sabato 24 novembre 2007

Sviluppo economico e violenza di genere

C'è un collegamento? Nei paesi in via di sviluppo c'è più o meno violenza contro le donne rispetto ai paesi sviluppati? Prima di rispondere a questa domanda qualche avvertimento è obbligatorio.

La violenza contro le donne è un concetto che andrebbe definito e operazionalizzato, reso, cioè, misurabile. Cos'è la violenza contro le donne? Ogni forma di violenza verso una donna? O forse la violenza contro le donne in quanto donne? Quali sono le forme di questa violenza? Stupri, pestaggi domestici, omicidi d'onore, ma anche forme più sottili come la discriminazione sociale? I dati sono pochi e non completamente affidabili. Vengono raccolte interviste e fatte statistiche, ma è difficile capire quanto le risposte siano influenzate da variabili culturali e le statistiche siano veramente rappresentative. Ciò nonostante qualcosa abbiamo.

Nel 2005 l'organizzazione mondiale della sanità ha condotto uno studio comparato sulla violenza di genere, attraverso interviste e focalizzando la propria attenzione su forme di violenza sessuale e domestica. Nello studio sono raccolti dati per nove paesi, qui in ordine crescente in termini di sviluppo umano: Etiopia, Tanzania, Bangladesh, Namibia, Perù, Samoa, Thailandia, Brasile, Giappone. L'indice di violenza di genere rispetta l'ordine di sviluppo umano (i paesi meno sviluppati sono i più violenti), con le significative eccezioni di Tanzania e Namibia (paese violento verso le donne solo più di Brasile e Giappone). Non si possono trarre chissà quali conclusioni da un campione così ristretto, se non che il i paesi più poveri non sono necessariamente più pericolosi per le donne. Politiche di promozione di genere sono state perseguite sia in Tanzania che in Namibia (paesi entrambi guidati da governi di ispirazione socialista), che si riflettono anche, per fare un esempio, nella rappresentanza politica femminile. Evidentemente hanno avuto successo, rivelandosi uno strumento prezioso. In Africa, che riserva molte sorprese positive se si guardano alle statistiche sulla parità di genere, non sono casi isolati.

La ricerca del WHO dà, però, un'immagine "statica" della relazione tra sviluppo e violenza di genere. Lo sviluppo economico è un processo e i suoi meccanismi possono avere ripercussioni differenti, positive e negative, sulle donne. In Asia, ad esempio diversi studi sociologici hanno mostrato come la crescita economica abbia messo in discussione posizioni di potere ed autorità tradizionali in mano maschile. E gli uomini reagiscono, spesso e volentieri, violentemente. In questi casi la violenza è un male necessario? O la violenza cambia semplicemente di forma, trasformandosi da strutturale a fisica?

Paradossalmente la violenza fisica potrebbe non essere altro che il colpo di coda di una battaglia già persa dai maschi. Sono state fatte, ad esempio, ricerche, sempre di natura antropologica, sull'impatto dei programmi di microcredito sulla violenza di genere. I risultati non sono univoci, ma sembrano mostrare una crescita della violenza fino al punto in cui la bilancia del potere all'interno dei rapporti familiari incomincia a pendere dalla parte delle donne, grazie al loro accesso a risorse economiche che gli uomini non hanno.

Un'ultima nota la faccio riguardo al tema della guerra. La guerra è divenuta, con la modernità, un problema femminile. Le donne ne sono diventate le vittime, simbolicamente e realmente. La guerra però ha avuto un portato di emancipazione su cui bisognerebbe riflettere. Le donne, partecipando allo sforzo bellico, si conquistano un posto nella società, nella politica e nell'economia, che le era prima negato. Le operaie americane, le guerrigliere della Namibia e dell'Uganda, le superstiti del Rwanda e, forse, pure le nostre partigiane hanno conquistato la loro dignità sociale proprio grazie alla guerra.

Conclusioni? Di ottimismo: non c'è nulla di inevitabile nella violenza contro le donne.

venerdì 23 novembre 2007

Cose che si perdono

Ieri sono tornato dal lavoro con un diavolo per capello, perchè una collega aveva perso il mazzo di chiavi della casa. Io ho dovuto perdere due ore di "vita" a cercare sto benedetto mazzo, mentre quell'altra faceva la gnorri al telefono. Nulla. Polverizzate. Vaporizzate. Verosimilmente finite nella spazzatura. Ma dico: come si fa?

Ti danno le chiavi in mano, hai la responsabilità di amministrare quelle chiavi, non devi andare in giro per il paese, ma te ne stai al chiuso dietro la porta, e le devi usare per aprire praticamente tutti gli armadietti della casa, eppure le perdi. Sono belle grandi e pesanti. E tu le perdi. E te ne vai senza dire nulla, chè fa brutto. Ma come si fa?
Comunque bazzecole rispetto a perdere 25 milioni di dati confidenziali, eh?

ps. gli armadietti sono stati tutti debitamente scassinati dal sottoscritto.


pps. a sentire gli ultimi aggiornamenti pare che i 25 milioni di dati confidenziali non siano stati persi per strada, ma inviati via mail per pigrizia a gente che non ci azzeccava. Un po' come quando scrivi dei fatti tuoi forwattando la mail ad un esercito di indirizzi di amici di amici di amici. E' poi scientifico che la mail arrivi proprio a chi non deve arrivare.

mercoledì 21 novembre 2007

L'ultima (rottami militari e industriali): il Loop da Harold Wood a Purfleet

E' l'ultima del Loop. La prima passeggiata la feci che c'era la neve, era febbraio 2007. Partivo dal profondo est di Londra, Erith, riva meridionale del Tamigi. A settembre sono in fondo, ancora nel profondo est londinese, ma dall'altra parte del fiume.

Si parte e sgamo subito una coppia che sta facendo il mio stesso giro con la mia stessa guida. Lo si capisce dal fatto che si girano e guardano indietro sempre dove lo consiglia la guida. Si fermano subito, però, ad Upminster Bridge. Io sono coraggioso, mi faccio le ultime miglia di suburbia e finisco nella valle dell'Ingrebourne, che diventa presto selvaggia e protetta dall'Hornchurch Country Park.

Tra pascoli, paludi, uccelli e mucche si nascondono le casematte della battaglia d'Inghilterra. Ora, in vece della contraerea nascondono immondizia, ma fanno sempre il loro bell'effetto. Lungo il Loop sono incappato nelle piste d'atterraggio, nel quartiere generale, nelle costruzioni difensive della seconda guerra mondiale. E il bello deve ancora arrivare.

Eh sì, perchè dopo il parco e dopo le praterie di Rainham e il suo fetore da distretto industriale (proprio lo specchio di Erith) si arriva al Tamigi. E lungo il fiume non mancano le sorprese. Prima però mi mangio il panino con la mostarda di Digione ammirando le fabbriche di Erith, con le ciminiere color ruggine, cattedrali dello sviluppo economico e culle del movimento operaio. Ora sembrano abbandonate e quasi spettrali, e questo magari spiega pure perchè le mitiche Trade Unions siano più che trasparenti. Colto da un momento di nostalgia per la malinconia che provai attraversando in treno le stazioni fantasma tra Lipsia e Berlino, con le industrie orfane degli uomini e i vetri rotti (lo diceva Marx che il capitale senza il lavoro non vale una cippa), oltrepasso i silos della Tilda Rice e scopro i barconi di cemento che usarono per il d-day. Nessuno mi chieda come abbiano fatto a farli galleggiare fino in Francia. Però sono là e sono bellissimi.

L'ultimo regalo è un palombaro che spunta dalle acque. Sarò che sono stanco per le 140 miglia di Loop che ho sotto le scarpe, ma è una grande opera d'arte moderna.

Si costeggia il fiume tra paludi e discariche fino a Purfleet, dove, a raffreddare tutto il mio entusiasmo ci pensa il radler sciacquoso e disgustoso che mi sono bevuto per celebrare la conclusione della circumcamminazione di Londra. Poi qualcuno si chiede perchè gli inglesi non bevono più birra.

sabato 17 novembre 2007

Trasformare la guerra? Cambiare il mondo?

Ogni società è attraversata da innumerevoli conflitti, che vengono risolti in modo pacifico. Solo in alcuni rari casi questi conflitti portano alla guerra. L'obiettivo di mediatori e operatori di pace non deve essere, pertanto, la risoluzione del conflitto, ma la sua trasformazione in senso nonviolento. Questo è il fulcro della critica di Galtung e Lederach alle teorie tradizionali di promozione della pace.

Se i teorici della risoluzione dei conflitti partono implicitamente dal presupposto che una guerra (o per lo meno le nuove guerre) sia sempre e comunque un gioco a somma negativa e, quindi, irrazionale: tutti perdono, quelli della trasformazione dei conflitti concedono che una guerra possa avere anche una somma zero: alcuni perdono, altri vincono. Ciò significa che alcuni attori della guerra hanno un interesse a perseguire i propri obiettivi con l'uso della violenza. La sfida degli operatori di pace non è, quindi, cercare di trasformare i leoni in agnelli, ma di cambiare i pay-off del gioco, in modo che l'uso della violenza sia meno remunerativo di strumenti non violenti. In altri termini, la trasformazione di un conflitto significa sostituire la politica alla guerra.

Più facile dirsi che a farsi. Ecco perchè.
1. Nella cartina politica del mondo, coperta interamente dai colori della sovranità statuale, si sono aperti dei buchi neri. Lo spazio politico non è più riempito completamente dagli stati. Negli interstizi dell'ordine dei monopoli della violenza, si è fatto largo il disordine della giungla, dell'anarchia, la guerra. Il disordine si trova geograficamente sia oltre i confini degli stati (negli stati falliti, dal Congo, alla Somalia, all'Afghanistan e all'Iraq), sia all'interno dei confini (nelle favela di Rio, nei vicoli di Napoli, etc.).

2. Alcuni di questi spazi di disordine hanno una acquisito una funzione economica. Essi servono all'economia globale. Servono per sfuggire ai costi imposti dallo stato (tasse, contratti di lavoro) e ai suoi divieti (al commercio di droghe ed altri merci illegali, al riciclaggio del denaro sporco). Si instaura così una relazione a doppio filo tra economica legale e illegale, ordine e disordine, benessere e miseria, che hanno la forma di catene internazionali di produzione: i paesi della coca esportano la pasta di coca in Brasile. Lì la pasta viene raffinata grazie ad agenti chimici prodotti in Brasile e Germania. La coca viene poi esportata nei mercati occidentali grazie alle armi prodotte negli Stati Uniti. Nella bilancia dei pagamenti di Gomorra, all'esportazione di droga fanno fronte le importazioni di armi e prodotti chimici.

In questo quadro la guerra non è il frutto di una umanità irrazionale o di un dilemma della sicurezza irrisolto, nè un metodo cruento per ottenere dei benefici economici o politici. La guerra è uno stato da mantenere e sfruttare: il passaggio dalla guerra alla politica significherebbe troncare queste catene internazionali di produzione, perdere delle rendite e delle fonti di profitto.

3. Altri spazi di disordine non hanno una utilità economica: in questi casi la guerra non è una condizione necessaria alla produzione, ma un costo. Ciò nonostante stati e imprese, grandi e piccole, si adattano al conflitto e finiscono per finanziarlo e perpetuarlo. Così è per i "blood diamonds". I diamanti vengono raccolti e venduti da bande armate a mediatori che li rivendono agli uffici delle imprese occidentali. De Beers non guadagna un penny dalla guerra in Congo, ciò nonostante compra i diamanti congolesi, e se non lo fa De Beers lo fa qualcun altro. Gli stati confinanti al Congo, Uganda e Zambia su tutti, si premurano di falsificare la provenienza delle pietre preziose, ottenendo pure loro una lucrosa fetta di profitti. Il mercato di diamanti c'è ed è competitivo e continua a pagare i costi della guerra per accaparrarsi posizioni di rendita sul territorio.

Se queste guerre non sono economicamente razionali, hanno pur sempre generato un insieme di interessi, rendite e relazioni che le perpetua e che bisogna sconfiggere per riportare alla politica queste zone di conflitto.

4. La guerra non sono un fenomeno locale, scollegato dal resto del mondo pacifico. La guerra ha radici profonde che arrivano fino al cuore del mondo ordinato e pacificato. La guerra è integrata in un sistema di relazioni transnazionali, che trascendono le capacità di controllo dei governi. I confini sono diventati porosi, incontrollabili. Li attraversano di contrabbando, uomini, merci e capitali. Non è possibile isolare le zone di conflitto da quelle di pace: le armi volano ovunque ci sia un acquirente. Stabilire un monopolio della violenza, riportare l'ordine e la politica è diventata un'impresa titanica.

In questo contesto le strategie di trasformazione di conflitto, che si limitano ad attori locali, programmi radio e workshops, sono velleitarie. Qui per trasformare una guerra è necessario trasformare il mondo.

martedì 13 novembre 2007

Il sesso non consentito

F. ha 32 anni, è alta 1m e 50 ed ha la sindrome di Down. Lo psicologo ha stabilito dopo un colloquio di qualche minuto che F. ha un'età mentale di 4 anni e ha anche deciso che non è in grado di consentire a rapporti di natura sessuale.

Il fatto che non sia in grado di consentire a rapporti sessuali, non significa affatto che F. non abbia pulsioni di natura sessuale. Anzi. F. ha un "boyfriend" che frequenta nel centro diurno e, sopratutto, una relazione affettiva molto intensa con la sua "Amica"e coinquilina T.

Il sospetto che F. possa avere una relazione di carattere omosessuale proprio in casa ha gettato nel panico i miei colleghi. E' stata avviata una procedura per verificare se ci fosse stato un abuso (anche se non si è ancora capito bene chi sia l'abusato e chi l'abusante), sono stati avvertiti con urgenza i servizi sociali e sono state adottate procedure per controlla la sessualità deviante di F.

Io sono state bonariamente rimproverato per non aver scritto un rapporto dopo aver scoperto che F. e T. avevano dormito (vestite e ben separate) sullo stesso letto (matrimoniale). A nulla è valso far notare che i bambini spesso desiderano dormire vicini (e, si badi bene, F. è un adulto di 4 anni mentali) e che pure nel mio letto hanno dormito uomini, donne e bestie senza che succedesse alcunchè di piccante. Trattamento simile è capitato ad una mia ingenua collega che non ha visto nulla di male nel fatto che F. lavasse la schiena a T. nella vasca da bagno.

Alla fine i servizi sociali si sono visti costretti a inviare in missione speciale una giovane e intrepida psicologa. Questa dopo alcuni colloqui di qualche minuto e lunghe consultazioni di natura legale e scientifica con il proprio capo è giunta alle seguenti conclusioni:

1. A F. piace frequentare T.
2. Non ci sono prove per pensare che F. vada oltre a qualche carezza con T., ma anche se fosse...
3. non esiste legge che regolamenti i rapporti di tipo lesbico concernenti adulti vulnerabili.

In conclusione, abbiamo una persona a cui è stata attribuita, una volta per sempre, l'età di 4 anni, ma che viene ipocritamente chiamata adulta; abbiamo un approccio interno alla sessualità di tipo proibizionistico privo di ogni aspirazione a promuovere una sessualità consapevole (nonostante "choice" sia una delle parole d'ordine "aziendali"); abbiamo una legislazione in materia che ignora le problematiche connesse al rispetto del corpo, ma ossessionata dalla penetrazione (omo ed etero).

Che dietro il libertinismo di facciata della società inglese, non si nascondano sostanziosi residui di moralismo vittoriano?

venerdì 9 novembre 2007

Scrivo con le mani legate

Franz Jaegerstaetter è stato beatificato il 26 ottobre 2007. Rifiutò di prestare servizio militare nell'esercito nazista. Venne processato e condannato a morte il 9 agosto 1943. E' il beato degli obiettori di coscienza. Ora sono state tradotte e pubblicate le sue lettere dal carcere. Ne parla padre Angelo Cavagna su Antenne di Pace.

E visto che si parla di obiezione di coscienza e di antenne di pace, ecco il ricordo di don Oreste Benzi scritto da Tiziana e da Matteo. Tiziana e Matteo sono stati come me "caschi bianchi" con la Comunità Papa Giovanni XXIII, fondata proprio da don Oreste. E come me sono rimasti folgorati dall'amore gratuito di don Oreste.

Buona lettura.

domenica 4 novembre 2007

I malvagi

Non ho mai creduto all'esistenza dei malvagi. Del male sì, e pure del diavolo. Ciascuno di noi può commettere azioni orrende. Qualcuno di noi lo fa raramente, altri molto spesso. Dietro però ad ogni azione cattiva ci deve essere una ragione. Magari un dramma sepolto nella memoria, una passione travolgente, una situazione di disperato bisogno. Ma anche la voglia di vendetta per un'ingiustizia subita, l'inappagabile desiderio di denaro, potere o celebrità. Semplice egoismo o banali viziose abitudini. Ma l'esistenza di persone intrinsecamente malvagie mi è sempre sembrata una cosa impensabile. Chi puoi mai fare qualcosa di male solo per il gusto di farlo?

Il male non è (quasi) mai giustificabile, però nel momento in cui diventa comprensibile è anche possibile immaginare il suo superamento e aprire degli spiragli per una conversione. Il male fine a se stesso, invece, è assolutamente incomprensibile. Non ha spiegazioni e non comprende possibilità di conversione. Come può solo pensare di pentirsi una persona assolutamente malvagia? No, i malvagi non esistono.

Poi, giorno dopo giorno, un dubbio si è insinuato in quella che era una incrollabile certezza. Il dubbio ha la forma di una donna bella, sorridente, disponibile e molto professionale. Un giorno spariscono 20 sterline dalla cassa. Chi è stato? O io o lei. Lei impossibile, avrò sbagliato io a dare il resto della spesa. Eppure avevo controllato bene e il mio portafoglio alla fine della giornata era vuoto. Vabè, sarò stato io comunque. Due mesi dopo spariscono 60 sterline. Stavolta è chiaro: io non c'entro. C'è una inchiesta interna ed un mare di bugie: c'è chi si difende tentando di nascondere le piccole inadempienze commesse, c'è una che cerca di incolpare la collega. Non passa nemmeno una settimana e compare un messaggio sul libro delle comunicazioni: da oggi le chiavi della cassa e delle medicine devono essere portate dalla stessa persona che avrà piena responsabilità per ogni discrepanza. Lei scrive il messaggio, io il primo a prendere le chiavi e, guarda a caso, mancano già due medicine. L'obiettivo è chiaro: mettere nei casini i colleghi.

Poi uno ci pensa e mette insieme piccole cose a cui prima non aveva fatto caso: i soldi per pagare il taxi non restituiti; la promessa fatta al manager di scusarsi per una risposta maleducata verso di me mai mantenuta; i guanti di lattice di scorta nascosti; il parlare alle spalle; lo scaricare la colpa sempre verso i colleghi. Sono tutte piccole cose, banali, stupide, grette, non necessarie, ma tanto più superflue sono, tanto più incomprensibili e malvagie.

Perchè fare del male quando non se ne trae beneficio alcuno, se non la soddisfazione di avere fatto del male? Non hai dimostrato di essere più forte, nè più intelligente. Non ti sei arricchita e hai rubato a dei disabili. Nessuno ti stimerà di più. Tutte le tue azioni rimangono nascoste, oscure, non te ne puoi nemmeno vantare con le amiche.

No, i malvagi non esistono. Però qualcuno mi deve spiegare il perchè.

sabato 3 novembre 2007

Ciao don Oreste

Oggi è morta una persona speciale, un prete che tanta parte ha avuto nella mia maturazione spirituale. Era un prete sgualcito, che non amava compiacere, ma di una umiltà sconfinata e di una gioia contagiosa.

Di don Oreste ho qualche ricordo personale, di incontri che ritagliava da agende fittissime. Mi impressionava la passione di un uomo che dormiva pochissimo, a volte in macchina, a volte su una tavola di legno, e si faceva tanti chilometri per incontrare gente come me, uno dei tanti volontari cialtroni in servizio civile. E quando mi si sedeva di fronte sorridente, dopo una breve preghiera, non mi faceva una predica nè una lezione. Mi faceva delle domande, voleva sapere di me: non si era fatto tutta quella strada per farsi ascoltare, ma per ascoltarmi. E dopo avermi ascoltato mi diceva grazie, grazie perchè sei un dono importante.

Di don Oreste ho conosciuto soprattutto la sua Comunità, prima in una casa famiglia a Predappio, poi durante la formazione al servizio civile, tra Rimini e Marzabotto e, infine, a Nairobi. Ho incontrato tante persone, con alcune sono andato molto d'accordo, con altri meno, qualcuno mi ha insegnato delle lezioni importanti, soprattutto la gioia misteriosa della condivisione.

Di don Oreste ho imparato a cercare il Cristo, senza stancarsi, nei volti di chi ha bisogno di aiuto, di chi soffre, di chi non ha voce per urlare se non la mia. E Cristo l'ho pure incontrato, nel piccolo Brian che voleva un papà; in Maria che mi ha preso per mano e mi ha accompagnato fino alla porta di filo spinato della baraccopoli; in Tabitha, che non aveva un lavoro, ma dieci figli - i più non suoi ma orfani dell'aids; nella cappella buia di Baba Yetu a pregare dopo una giornata nella polvere.

Ma fu solo molto tempo dopo che capii che anch'io potevo rispecchiare Cristo solo nel momento in cui avessi riconosciuto di aver bisogno, molto bisogno degli altri, di tutti.

Ciao don Oreste, oggi non si piange, ma si festeggia insieme a te nella gloria dei Cieli.

Nel momento in cui chiuderò gli occhi a questa terra, la gente che sarà vicino dirà: è morto. In realtà è una bugia.
Sono morto per chi mi vede, per chi sta lì. Le mie mani saranno fredde, il mio occhio non potrà più vedere, ma in realtà la morte non esiste perché appena chiudo gli occhi a questa terra mi apro all'infinito di Dio.
Noi lo vedremo, come ci dice Paolo, faccia a faccia, così come Egli è (1Cor 13,12). E si attuerà quella parola che la Sapienza dice al capitolo 3: Dio ha creato l'uomo immortale, per l'immortalità, secondo la sua natura l'ha creato.
Dentro di noi, quindi, c'è già l'immortalità, per cui la morte non è altro che lo sbocciare per sempre della mia identità, del mio essere con Dio. La morte è il momento dell'abbraccio col Padre, atteso intensamente nel cuore di ogni uomo, nel cuore di ogni creatura.

giovedì 1 novembre 2007

Cortina, Sudtirolo

Cortina vuole passare al Sudtirolo. La cosa non sorprende e "l'irridentismo al contrario" mi sta assai simpatico, soprattutto perchè puzza di nostalgie austroungariche e qui alla Sissi e Cecco Beppe si è sempre voluto bene. Che poi ci siano dietro questioni di soldi non fa che confermare qualche oggettiva verità sociologica riguardo ai ladini.

Quello che stupisce è che la SVP abbia detto di sì senza tanti problemi.

Ora però bisogna capire alcune cose importanti. I cortinesi quanti sono? come si dichiareranno al prossimo censimento etnico-linguistico? e, soprattutto, per chi votano? sta a vedere che alle prossime provinciali facciamo addirittura una terna (o sarà il Kaiser a fare bingo?)...

martedì 30 ottobre 2007

Conflict Resolution

Oggi sono stato ad un corso di formazione dell'azienda. Conflict resolution, il tema. La provvidenza! penserà qualcuno.

Si parte con un test psicologico su come affrontiamo i conflitti. Ne esce che sono una civetta (che è disposta a confrontarsi a visi aperto), con una notevole propensione a fare la volpe (che cerca sempre il compromesso) e molti tratti da orsetto (che sui conflitti sparge il miele). Non sono, invece, una tartaruga (che rifugge il conflitto), nè tanto meno uno squalo (che nel conflitto, invece, ci sguazza ed è disposto a sbranare per vincere). E chissà se questo test mi ha descritto bene...


Poi si passa il resto della giornata a dire che l'importante in un conflitto è essere assertivi (cioè farsi valere, ma non troppo e sempre con molta educazione) e sapere prendere e dare critiche.
Insomma, un corso inutile. Inutile perchè partiva dal presupposto che i conflitti nascono da problemi concreti e si svolgono tra persone adulte, mature e moderatamente razionali. Beh, ci sono anche questi conflitti, ma per risolverli non serve certo una giornata di lezione. Inutile perchè i conflitti veri nascono da antipatie caratteriali, vendette servite a sangue freddo freddissimo, passioni che prendono la mano e sete di sangue.

Tornando a casa esponevo le mie idee ad un mio collega gallese, che mi risponde così: Luca, tu non volevi un corso sulla risoluzione dei conflitti, tu volevi un corso sulla moralizzazione dei tuoi colleghi. Beh, lo ammetto, touchè.

sabato 27 ottobre 2007

Get a Life!

18 ottobre, giovedì. Spariscono 60 sterline dalla cassa della struttura residenziale per disabili dove lavoro. Non è la prima volta. Due mesi fa ne sparirono 20. Sicuro è che è stato una mia collega, non si sa bene quale, tre le sospettate (e il quarto sono io).

Prima mi viene la rabbia, perchè penso che bisogna essere proprio perversi per rubacchiare a cinque disabili, creando bordello nel team di educatori. E' una cosa che proprio non riesco a comprendere. Mi viene più facile capire un crimine clamoroso, un assassinio, uno stupro, una rapina in banca, per passioni e disperazione violente, che un petty crime, un furtarello inutile e malvagio.

Poi mi viene la compassione, perchè penso che bisogna aver una vita proprio misera per passarla a pianificare un simile crimine. La ladra, infatti, ha pianificato tutto con cura. Ha aspetto che si susseguissero in turno le stesse persone di due mesi fa e che qualcuno (io), stanco e fiducioso nei confronti dei colleghi, ma soprattutto fesso, non firmasse la scheda di controllo dei soldi. Bisogna averne di tempo e di voglia e di costanza per aspettare che una simile costellazione si verifichi. Bisogna averne di passione.

E allora mi viene voglia di guardare negli occhi la manolesta e dirle in faccia: C'è un mondo meraviglioso là fuori, Go and Get a Life!

giovedì 25 ottobre 2007

Dietro il futuro di Kilombo

Il post sul futuro di Kilombo, metapostato ieri da tanti kilombisti, ha generato qualche apprensione e le dimissioni di addirittura due redattori. Cerco qui di fare un po' di chiarezza sull'iniziativa e svelare quello che ci sta dietro.

1. Ha generato molte perplessità l'uso dell'espressione "progetto politico". Per chiunque abbia avuto la pazienza di leggersi tutto il documento non dovrebbe essere stato difficile capire che il progetto politico in questione è mantenere un vivo e fruttuoso dialogo tra bloggers che si sentono di sinistra. Nulla di nuovo, in realtà. Una ennesima riformulazione della Carta di Kilombo.

2. Il documento nasce dopo un intenso carteggio tra un gruppo informale di kilombisti a seguito delle votazioni di espulsione per Karletto Marx e Valerio Pieroni. Si constatava che Kilombo stava perdendo il carattere iniziale, "spesso" di aggregatore di sinistra, per trasformarsi in un aggregatore "leggero", dove la libertà dei contenuti fa premio sulla coerenza ideologica. Questa nuova impostazione "leggera" è stata decisa dal collettivo attraverso le due votazioni e sotto molti aspetti funziona. Non so voi, ma per il mio blog tra il 30 e il 40% del traffico proviene da Kilombo. Non è nelle intenzioni di nessuno degli autori de "Il futuro di Kilombo" cambiare nulla del kilombo.org attuale.

3. Sebbene l'aggregatore "leggero" e "veloce" va bene così, a noi non basta. Non ci accontentiamo, siamo ingordi e vogliamo qualcosa di aggiuntivo, qualcosa in più. Le ragioni di questa nostro ingordigia sono, da un lato creare uno spazio di dialogo riflessivo, lento, meditato, di qualità, dall'altra prevenire che il giorno in cui salta il governo salti pure Kilombo. Ci siamo allora chiesti quali fossero gli strumenti per ottenere i nostri obiettivi e abbiamo scoperto che c'erano già, frutto di lunghe consultazioni e democratiche liberazioni: kilomboslow e l'associazione.

4. Sull'associazione possiamo fare poco al momento, mentre kilomboslow lo possiamo fare subito. Ci siamo letti attentamente le regole decise dal collettivo, abbiamo visto se c'erano tra di noi dei volontari e abbiamo verificato se c'era bisogno del consenso della redazione. Il comitato editoriale è formato da chiunque ne voglia far parte, fino ad un massimo di 6, per un periodo massimo di 6 mesi e indipendente dalla redazione. Abbiamo aspettato abbastanza e siamo partiti.

5. Il fatto che alcuni bloggers, nella fattispecie, Valerio Pieroni e Korvo Rosso, non condividano il nostro documento non può che farmi piacere. Non perchè li abbia in particolare antipatia (tutt'altro!), ma perchè hanno coerentemente e costantemente sostenuto un'idea di Kilombo altra rispetto a quella che abbiamo prospettato noi e cioè che in Kilombo è importante parlare, magari pure urlare, ma sforzarsi di ascoltare, riconoscersi e legittimarsi vicendevolmente cioè, è un optional. Per loro, come detto, non cambia nulla. Noi oltre alla playstation 1 vogliamo anche la playstation 2. Perchè non farci giocare?

martedì 23 ottobre 2007

Il Futuro di Kilombo

Kilombo nasce in concomitanza con importanti appuntamenti elettorali come le primarie per l'Unione e le politiche, per far dialogare e scontrare quelli che vengono chiamati riformisti e radicali, cercando di creare un terreno comune di appartenenza.

Kilombo era e deve rimanere un progetto politico (o, anche se non formalmente, una associazione politico-culturale) cioè che raduna tutti coloro che si riconoscono in alcuni valori (quelli della Carta) a prescindere dalla adesione ad un partito del centro-sinistra o alla stessa coalizione dell'Unione. Crediamo che questo sia un punto fondamentale da fissare, anche alla luce delle probabili future evoluzioni politiche. Il tutto per evitare di ricadere nel vecchio detto di Pietro Nenni secondo cui "a fare a gara fra puristi [di sinistra, ndr], si troverà sempre qualcuno più puro, che alla fine ti epura".
In questi giorni il progetto politico dell'Unione sembra, invece, alla corda. Il governo ha il fiato corto. A destra e a sinistra della coalizione governativa cresce la voglia di andare da soli. Alcuni non possono sentir parlare di Partito Democratico, altri non ne possono più della sinistra di lotta e di governo. Kilombo rischia di subire questa situazione e di implodere. Sarebbe un peccato, perchè è proprio nel momento in cui la sinistra "reale" si divide che bisogna fare valere le ragioni del dialogo riscoprendo il patrimonio storico e valoriale che ci accumuna.
Questo compito è responsabilità anche nostra, la sinistra "virtuale". E', paradossalmente, nel momento di massima distanza politico-parlamentare che l'esperimento kilombista acquista significato e importanza non secondari. Per prevenire l'implosione di Kilombo è cruciale riscoprire le ragioni del nostro aggregatore e farle diventare progetto politico (sebbene rigorosamente non partitico). Se vogliamo impedire che Kilombo si trasformi (o rimanga) una vetrina in cui prevalgono le ragioni della polemica fine a se stessa tra nemici su quelle del confronto fruttuoso tra compagni, dobbiamo dotarci di tutti gli strumenti, reali e virtuali, necessari. Alcuni sono stati individuati molto tempo fa, ma sono rimasti in cantina. Kilombo slow e l'associazione aspettano solo di venire usati. Nessuno, però, osa metterci mano, cuore e testa.
Perchè? Il loro scopo non deve essere quello di ricreare dal vivo o alla moviola l'atmosfera litigiosa e individualistica di kilombo.org. Le ragioni dell'associazione e di kilomboslow sono ben altre e altrettanto importanti. Sono le ragioni dello stare insieme a sinistra, nonostante parlamento e governo. Non dobbiamo, infatti, governare un paese, ma salvaguardare legami, contatti, spazi comuni. Non vale la pena impegnarsi in prima persona per queste ragioni? Allora perchè non ci diamo una mossa, magari prima che cada il governo e kilombo chiuda perchè Jaco si è dimenticato di pagare il aruba?

Chiunque condivida le ragioni da noi espresse è caldamente invitato a pubblicarlo sul proprio blog e a postarlo su Kilombo.

lunedì 22 ottobre 2007

La Sentinelli e il terzomondismo neoliberista

Patrizia Sentinelli, eletta in parlamento con i voti di Rifondazione Comunista, è il viceministro agli esteri con delega alla cooperazione internazionale. In un articolo pubblicato da project 2.1 spiega le linee guida per la politiche di cooperazione e sviluppo internazionale del governo italiano.

Questi mi paiono i punti fondamentali:
1. Il rigetto delle politiche economiche neoliberiste,
2. la promozione della microimprenditoria agricola,
3. la promozione del microcredito,
4. la promozione di obiettivi sociali diversi dalla crescita del prodotto, quali: educazione, sanità. promozione dell'ambiente e democrazia partecipata.

Alcune considerazioni sono d'obbligo.
1. Non so bene cosa l'onorevole Sentinelli intenda con il termine "economia neoliberista", però mi pare che questa abbia in comune con le politiche proposte dal governo italiano il considerare lo stato come un ente inutile, persino dannoso. Se la triade di Washington preme perchè gli stati africani privatizzino e lascino mano libera al "mercato", la cooperazione internazionale interviene volenterosa ad fornire quei servizi che dovrebbero essere pubblici. Ecco allora che vengono finanziate scuole e ospedali di donatori privati dal cuore d'oro. In questo modo si spezza il legame responsabilità e legittimazione che lega il cittadino con l'autorità pubblica. Si delegittima lo stato.

2. Tra le funzioni scippate agli stati in via di sviluppo non ci sono solo scuole e ospedali, ma soprattutto le politiche industriali. Il ministro Sentinelli detta le linee di sviluppo e priorità per i paesi del terzo mondo: ecosistemi, partecipazione, ogm-free, agricoltura. Chissà se si è consultata prima con i legittimi rappresentanti dei paesi che riceveranno i nostri aiuti o se ha deciso di testa sua.

3. Le nostre politiche di cooperazione sembrano frutto di una ossessione per le cose piccole: piccoli agricoltori, piccoli imprenditori, piccole banche. Io non augurerei a nessuno di diventare un paese di piccole e medie imprese. Basta già l'Italia. E' un mistero anche come ci si possa sviluppare dando supporto all'agricoltura di sussistenza. Per poter finanziare un sistema di supporto sociale efficace c'è bisogno di soldi, quindi di entrate fiscali e di crescita economica. Le entrate fiscali si ottengono solo con imprese regolarizzate (non in nero, cioè), possibilmente poche e grandi. Industrie grandi, oltre a ridurre i costi della raccolta delle entrate fiscali, godono vantaggi notevoli in termine di economie di scala: investono di più, ricercano di più, creano più (plus)valore. Non è forse un caso che la povertà si riduce più in fretta dove aumenta il lavoro dipendente (e non autonomo).

Dove vogliamo andare, invece, con una miriade di piccoli agricoltori che a fatica risparmiano i soldi per mandare figli a scuola?

giovedì 18 ottobre 2007

Di come l'Europa ha sottosviluppato l'Africa

C'è chi crede che la causa della fame e dell'indigenza capillarmente diffuse in questo continente è da indicare solamente nel colonialismo occidentale. Beh, ha ragione. Il resto sono chiacchiere e razzismo.

Nel 1972 Walter Rodney, uno storico della Guyana, pubblicò un libro intitolato "Come l'Europa ha sottosviluppato l'Africa". L'obiettivo era di demolire il mito che l'Africa fosse un continente di bingobongo fino all'arrivo dell'uomo bianco. L'argomento di Rodney è sviluppato, a grandi linee, come segue: nell'Africa precoloniale esistevano culture con un notevole (anche se non a livelli occidentali) sviluppo culturale, tecnologico e politico. Esistevano, infatti, comunità politiche estese, stati ed imperi. L'arrivo degli Europei, attraverso il traffico degli schiavi, demolì queste unità politiche e azzerò lo sviluppo culturale e sociale africano.

35 anni dopo un economista americano, Nathan Nunn, dimostra la tesi di Rodney (probabilmente inconsapevolmente) a forza di regressioni. La sua ricerca ha evidenziato una robusta correlazione negativa tra il numero di schiavi esportati e l'attuale performance economica. Il bello del paper di Nunn è che si sforza di spiegare questa correlazione. La tratta degli schiavi non è stata semplicemente un furto di capitale umano. Attraverso lo scambio armi per schiavi è stato sbriciolato il monopolio della forza che detenevano gli stati africani precoloniali. Improvvisamente tutti quelli che erano disponibili a rapire e vendere uomini si trovavano a disposizione un potenziale di fuoco senza precedenti nel continente. Gli stati africani vennero polverizzati, incapaci di fornire quei beni pubblici necessari allo sviluppo economico.

Poi venne la conquista coloniale, e l'asservimento dell'economia africana alle esigenze delle potenze occidentali. Ma questa è un'altra storia, chiamata, con una certa ironia, teoria dei vantaggi comparati. Questa storia ha una morale importante anche per le politiche dello sviluppo contemporanee. Il problema del monopolio della violenza si è aggravato negli ultimi decenni.

Ora non si vendono più schiavi (?), ma diamanti e il kalashnikov costa quanto una gallina. Per organizzare una ribellione bastano un telefono satellitare ed un pugno di dollari. E, infatti, metà del continente è fatta di stati falliti, sistemi anarchici e violenza a gogò. Il rischio è alto, i rendimenti bassi, gli investimenti a breve termine.

Come sia possibile pensare di rilanciare lo sviluppo economico e sociale di un continente se non si riesce a creare prima ordine politico, per me rimane un mistero.

mercoledì 17 ottobre 2007

Nobel per caso

Il premio Nobel James Watson (quello del DNA) ha recentemente dichiarato che i neri sono geneticamente più stupidi dei bianchi, e che quindi ci sono poche speranze per lo sviluppo dell'Africa.

Il Nobel per l'economia è invece andato a tre distinti signori chiamati Hurwicz, Maskin e Myerson, per una cosa che all'apparenza non ha nulla a che fare con il creazionismo, quanto con e-bay. Comunque ne pensiate, il Nobel per l'economia non è veramente un premio Nobel, ma il Premio in Scienze Economiche in memoria di Alfred Nobel, che è stato creato nel 1968 dalla Banca di Svezia e che non venne assegnato ad un economista, ma ad un matematico.

lunedì 15 ottobre 2007

Le quattro sfide per il pd

Le primarie sono state il primo passo del partito democratico. La strada è ancora lunga. Quattro sono i grandi ostacoli che bisogna affrontare per diventare un partito reale e vincente.

1. Veltroni. E' un maestro di comunicazione politica, e si vede. Dubbia è invece la sua capacità di guidare un'organizzazione complessa come quella di un partito un partito poi tutto da inventare. Saranno decisivi gli uomini e le donne che andranno a formare la segreteria di Veltroni.

2. Gli interessi organizzati. Il partito democratico ha una vocazione da "pigliatutto". Si rivolge, cioè, a tutti gli elettori, indipendentemente dalla loro classe sociale o credo religioso. Contemporaneamente ha le potenzialità per rendersi indipendente da lobby più o meno organizzate e dettare le politiche di cui l'Italia ha bisogno. Vocazione e potenzialità rischiano di essere in contraddizione, premiando il consenso a scapito dell'efficacia delle politiche o, viceversa, sposando politiche senza consenso. La via è stretta tra Scilla e Cariddi.

3. La forma partito.
Il partito democratico avrebbe dovuto essere un partito innovativo anche nelle sue forme, la cui progettazione è stata lasciata ad un giovane professore di Bologna, Salvatore Vassallo. L'impressione è che, invece di prospettare un partito nuovo, il professore ci stia guidando verso un partito americano, non solo nel nome. Far scegliere ai "simpatizzanti" un leader politico è roba, letteralmente, un'americanata. E' urgente che i nuovi quadri, a livello locale e nazionale, si riapproprino del partito e impediscano che si trasformi in un comitato elettorale. A tutti noi il compito di rivitalizzare le sezioni.

4. Le federazioni locali. Il partito democratico è stato pensato come federale. E, infatti, l'elezione delle assemblee locali è molto più importante di quella nazionale. Nella mia federazione la competizione elettorale è stata vera, altro che parata con vincitore annunciato! Ora vanno a formare un partito solo gente che si guarda(va) in cagnesco. E' la diffidenza di chi non si conosce bene, di chi è abituato a considerarsi in competizione, di chi è "laicista" e di chi è "clericale". La sfida ora è fare amicizia, costruire stima e fiducia e mettere le basi per un sano dialogo interno. Intanto Tommasini è diventato segretario. Qui gli si fa i migliori auguri.

venerdì 12 ottobre 2007

Al Gore: un Nobel dato a caso?

Al Gore è solo l'ultimo dei premi nobel dati a casaccio? Il nobel per la pace è stato trasformato in un generico premio ai buoni sentimenti? Cosa c'entra la pur nobile battaglia per l'ambiente con la pace nel mondo?

1. Secondo la volontà di Alfred Nobel, avrebbero dovuto essere premiati colore che
hanno fatto il lavoro maggiore o migliore per la fraternità tra le nazioni, l'abolizione o la riduzione degli eserciti permanenti e la promozione e organizzazione di congressi per la pace.
Scorrendo la lista dei premiati pare che questa volontà sia stata spesso tradita. Il premio ad Al Gore rappresenta, forse, il punto massimo di questo allontanamento dai propositi iniziali. Sono stati premiati ambientalisti, come Gore e la Maathai; operatori economici come Yunus, l'ILO e Madre Teresa; diversi attivisti per i diritti umani (Shirin Ebadi, Rigoberta Menchù, Aung San Suu Kyi, il Dalai Lama, Eli Wiesel, Lech Walesa fino ad Amnesty International).

Se le cause sposate da tutti questi premi nobel sono più che meritorie, il legame con la promozione della pace sfugge. Anzi! la promozione dei diritti umani è sempre un fattore di conflitto, altro che pace. Tra le motivazioni che portarono il comitato a
non premiare Ghandi c'era appunto la coscienza che la sua campagna per l'indipendenza dell'India, seppure non-violenta, ha avuto anche conseguenze tragiche. Altrettante perplessità andrebbero sollevate riguardo a chi lotta contro le povertà. Alcuni studi, per esempio, hanno messo in evidenza le conseguenze in termini di violenza privata dei programmi di microcredito.

Insomma un premio dato a caso? Tanto valeva darlo a Grande Puffo?

2. Forse no. Il comitato di Oslo ha, verosimilmente, fatto propria un'idea estensiva di pace. Agli inizi degli anni sessanta, proprio ad Oslo, Johan Galtung sviluppava il concetto di pace positiva, una pace cioè non come una semplice assenza di conflitto armato, ma come assenza di violenza in ogni sua forma, fisica e strutturale.

La violenza strutturale è la chiave per comprendere la logica nascosta dietro l'assegnazione del premio. Galtung si chiede infatti: se è violenza uccidere direttamente qualcuno, non lo è altrettanto privare qualcuno dei suoi mezzi di sussistenza o non agire per impedire che qualcuno muoia? Ecco perchè la lotta alla povertà e la conservazione dell'ambiente vengono intese come campagne contro forme strutturali di violenza e, quindi, per la promozione della pace positiva.

3. Un secondo supporto teorico a favore dei premi nobel ad ambientalisti è la teoria delle "guerre verdi", sviluppata da Homer-Dixon. Secondo Homer-Dixon, molti conflitti sono causati dalla lotta per accaparrarsi risorse scarse, o divenute tali in seguito all'inaridimento della terra. Il problema di questa ipotesi è che ignora il ruolo dell'uomo nello gestire situazioni di scarsità alimentare o nel generarle. Un altro premio nobel, per l'economia stavolta, Amartya Sen deve molto della sua fama proprio per aver dimostrato come la carestie siano generate dall'uomo, attraverso la manipolazione di strumenti economici e politici, più che da una natura maligna.

4. Le teorie di Galtung e Homer-Dixon sono discutibili sotto diversi aspetti, nulla impedisce, però, al comitato che assegna il premio nobel di farle proprie. E' un peccato, invece, che non si sia mai deciso di rendere questa presa di posizione esplicita attraverso uno o più premi a chi ha contribuito attraverso i propri studi ad ampliare il concetto di pace che il comitato (e molti di noi) hanno.
I nobel per la pace sono infatti stati assegnati esclusivamente a "uomini del fare", attivisti, politici, gente in prima linea. Sono stati sempre trascurati teorici, alcuni fondamentali, della pace. Oltre al già nominato Galtung, possiamo citare Hans Lederach, che ha sviluppato il concetto di trasformazione dei conflitti, o i teorici delle war economies, tipo Keen e/o Hirschleifer. La prossima volta perchè non lo diamo a uno di loro?